domenica 24 giugno 2007

Il voto operaio in Italia: declino o continuità?

di Salvo Leonardi[1]
da "Quaderni Rassegna Sindacale", n° 4/2006

1. Premessa
Le recenti elezioni politiche, lo scorso aprile, hanno riproposto interrogativi e dibattiti sulla composizione sociale e territoriale del voto in Italia. A sinistra, in particolare, ha suscitato un qualche scalpore l’orientamento di voto manifestato dagli operai del nord, in maggioranza schierati con la coalizione del centrodestra, uscita sconfitta dal confronto con l’Unione dei partiti del centrosinistra, guidata da Romano Prodi. Un dato che poteva inizialmente desumersi dal forte concentramento di voti raccolti dalla Casa delle libertà nelle regioni e province a più alta densità industriale, e che ha poi ricevuto nuove conferme, a seguito della pubblicazione di alcune analisi sondaggistiche (Ires-Swg, 2006; Feltrin, 2006). Diversamente che nel resto d’Italia, nelle regioni settentrionali e più industrializzate del paese il voto operaio avrebbe premiato con quasi otto punti di scarto la coalizione di centrodestra (Ires-Swg, 2006). I dati elaborati dall’Istituto Cattaneo rivelano come fra gli elettori che politicamente si auto-collocano nel centro e nel centrodestra vi sia una quota maggiore di operai rispetto a quanti si definiscono di centrosinistra; di contro, gli impiegati del settore privato, ma soprattutto del settore pubblico, propenderebbero per il centrosinistra (Itanes, 2006). Nel 2004 Corbetta e Segatti avevano rilevato come la classe operaia, che in passato aveva votato per il Pci, si fosse distribuita abbastanza equamente fra centrosinistra e centrodestra. Sin dai primi anni novanta si era poi cominciato a notare un netto travaso di voti operai, al nord, dalla Dc alla Lega e al centrodestra, a cui sarebbe andato un numero significativo di preferenze anche da parte di iscritti alla Cgil e alla Uil, oltre che – in misura assai maggiore – alla Cisl. Un dato che trova conferma anche in occasione dell’ultima consultazione elettorale, come si può vedere dal saggio di Feltrin su questa rivista.
Come vedremo, non si tratta affatto di un quadro inedito, poiché la sinistra italiana, sin dalla nascita della Repubblica, non è mai stata maggioritaria – se non del tutto occasionalmente – fra gli operai, e fra quelli del nord in particolare. E tuttavia permane pienamente, a nostro avviso, la legittimità dello stupore e dell’interrogativo – teorico oltre che politico – sul perché tanti lavoratori industriali continuino a non votare per la sinistra, per il centrosinistra, vale a dire per quel cartello di forze che dal cattolicesimo democratico e sociale ai due partiti neo-comunisti, passando ovviamente per la maggiore formazione derivata dalla fine del Pci, i Democratici di Sinistra, più di altri si sforza di interpretare i bisogni e le aspettative di quest’importante segmento della società italiana. Perché, è lecito chiedersi, un operaio decide razionalmente di votare per un leader come Silvio Berlusconi, che in occasione di uno dei due seguitissimi confronti televisivi pre-elettorali del 2006, si lascia andare a un’inedita invettiva contro la coalizione avversaria, accusandola – niente meno – di voler dare anche ai figli degli operai le stesse opportunità di vita del figlio di un professionista?
Per capire questo e altri misteri apparenti della politica contemporanea c’inoltreremo nel campo degli studi internazionali sul cosiddetto voto di classe, per tentare di svelarne natura e tendenza sotto il duplice profilo interpretativo della domanda elettorale (la classe sociale e i suoi cambiamenti) e dell’offerta politica (i partiti e i loro cambiamenti). Un’ampia parte centrale sarà invece dedicata al voto operaio in Italia, dimostrando come esso – diversamente che in altri paesi industrializzati – sia di norma rimasto minoritario nei riguardi della sinistra politica e che dunque, piuttosto che di declino, sia oggi più utile parlare di una sostanziale continuità. Tutto l’articolo apparirà pervaso dall’interrogativo intorno alla natura e all’eventuale utilità dell’analisi di classe rispetto ai profondi mutamenti che sul terreno materiale e simbolico hanno, fra principio di individualizzazione e differenziazione sociale, trasformato il nostro modo di vivere. Confermeremo, in conclusione, il nostro giudizio favorevole a un’analisi di questo tipo, che tuttavia – attingendo ad alcuni dei più fecondi filoni dell’umanesimo marxista, ma anche ad altre importanti scuole di pensiero, come quella di ispirazione weberiana – sappia adeguatamente valorizzare e incorporare, fuori da ogni determinismo di stampo economicistico, l’incidenza che la cultura e il simbolico esercitano oggi sulla formazione delle classi e sul loro comportamento socio-politico.

2. Il dibattito internazionale sul declino del voto di classe
Nelle democrazie occidentali vi è stato a lungo – e tuttora permane, seppure con assai minor forza che in passato – il convincimento secondo il quale tra la collocazione di classe e il comportamento elettorale vi sarebbe un nesso quasi naturale, mediato dall’appartenenza a un comune milieu socio-culturale (Lazarsfeld e la cosiddetta «Scuola della Columbia», 1944) e/o dalla trasmissione familiare di determinati valori (Campbell e la cosiddetta «Scuola del Michigan», 1960; Dalton, 1988). Un modello identitario in base al quale le persone tenderebbero a votare per i partiti già sostenuti dai loro genitori, e nei riguardi dei quali il cambiamento può verificarsi come un distanziamento temporaneo, destinato tuttavia a rientrare più o meno rapidamente in occasione di tornate elettorali successive (Butler, Stokes, 1974).
La classe sociale è stata tradizionalmente ritenuta il maggiore fattore determinante nella scelta di voto degli elettori. I partiti stessi sorgerebbero, in epoca moderna, col preciso scopo di rappresentare gli interessi di classe, e far sì che l’endogeno conflitto derivante sul terreno dei rapporti di produzione (approccio marxista) o, se si preferisce, su quelli di mercato (approccio weberiano), potesse ricevere una mediazione incruenta entro gli schemi della rappresentanza democratica e pluralista (Lipset, 1960; Korpi, 1983). Secondo la teoria economica della democrazia, un elettore dovrebbe essere in grado di stabilire un ordine di preferenza fra le varie élite politiche in competizione (Schumpeter, 1942), scegliendo razionalmente quella più consona ai suoi interessi materiali (Downs, 1957)[2]. Su un ideale continuum fra destra-sinistra, si collocherebbero nel primo campo borghesi e ceti medi, e nel secondo operai e vasti settori del lavoro dipendente.
Prima di procedere oltre, ci sia permesso di evocare rapidamente i due filoni sociologici più influenti in materia di classi sociali: quello marxista e quello weberiano. Entrambi convergono nel considerare la classe non come un mero posizionamento graduale nella gerarchia occupazionale e del reddito, ma come un sistema complesso di attitudini e relazioni sociali, in grado di rilevare significativamente sul terreno degli orientamenti socio-politici degli individui. Tuttavia, mentre l’approccio weberiano alla stratificazione è multidimensionale e assume la classe di appartenenza come uno soltanto dei fattori salienti che indirizzano le scelte politiche, insieme ad altri fattori quali quelli legati al prestigio dello status o al potere, l’approccio marxista ortodosso ha tradizionalmente considerato l’appartenenza di classe come la principale variabile esplicativa, seppure «in ultima istanza», di tali scelte[3]. Da questo punto di vista, si potrebbe sostenere come il voto di classe costituisca una preoccupazione teorica, oltre che politica, ben più pronunciata fra gli studiosi e gli osservatori variamente influenzati dal marxismo, che non fra quelli che – pur ammettendone la rilevanza – hanno sempre preferito un’analisi multi-causale del comportamento di voto (Wright, 1989).
Come ha rilevato Ossowski (1963, trad. it. 1966), Marx (con Engels) fornisce una connotazione variabile del termine classe: una economico-sociale, ampia e determinata in rapporto ai processi di valorizzazione del capitale; una socio-politica, dicotomica e restrittiva, basata sull'elemento dirimente della coscienza e dell’antagonismo di classe. Gran parte dell'opera marxiana è attraversata da questa identificazione fra l'essere di classe, la coscienza e l'antagonismo che scaturisce dall'opposizione a un’altra classe. Un’analisi dinamica che dalla struttura conduce all’azione per il tramite della coscienza politica del proprio assoggettamento, inducendo a indagare sul piano relazionale il processo di formazione socio-politica – nei rapporti di produzione – di tale strutturazione. La classe – come ha precisato lo storico marxista inglese Edward P. Thompson (1968) – rappresenta una relazione e non un oggetto. La tenuta complessiva di questo sistema teorico, la sua indiscutibile egemonia nelle lotte di classe di oltre un secolo, è sostanzialmente dipesa dalla semplificazione della struttura sociale imposta dalla prima industrializzazione e, successivamente, dallo sviluppo fordista delle forze produttive. L'epoca della borghesia – si legge nel Manifesto – si distingue perché ha semplificato i contrasti fra le classi in due grandi campi nemici: borghesi e proletari. Il problema dei cosiddetti ceti medi, da questo punto di vista, verrà affrontato in modo ambivalente e contraddittorio[4].
Per gli studiosi di ispirazione weberiana, come si accennava, la classe è sì una variabile fondamentale dei comportamenti sociali, ma non esclusiva, concorrendo con altre – lo status, il potere – a strutturare tali comportamenti (Runciman, 1972; Dahrendorf, 1977). Sociologi come Erikson e Goldthorpe (1992) e, in Italia, Cobalti e Schizzerotto (1994), hanno costruito diversi schemi delle classi, incentrati sull’ordine delle professioni, ma attenti anche alla formazione socio-politica delle classi, assunta sotto il profilo delle opportunità e degli stili di vita. Lo schema di Erikson e Goldthorpe è costituito da un ordine delle professioni che si articola in sei diversi strati, il cui confine principale è rappresentato dalla divisione fra lavori manuali e lavori non manuali. Ai primi si iscrivono, dall’alto in basso, professionisti, occupazioni intermedie, occupazioni non manuali qualificate; ai secondi, sempre dall’alto in basso, le occupazioni manuali qualificate, quelle semi-qualificate, infine quelle non qualificate. Uno schema a sei classi è anche quello proposto da Cobalti e Schizzerotto, basato essenzialmente su tre raggruppamenti maggiori – borghesia, piccola borghesia e classe operaia – con le ultime due suddivise seconda la collocazione, urbana o agricola.
Si tratta di schemi molto accreditati nella comunità scientifica, che tuttavia si sono prestati a critiche di tenore opposto a quelle rivolte ai modelli conflittualisti di derivazione marxista. Si tratterebbe infatti di schemi inadeguati a cogliere il profilo dinamico delle trasformazioni valoriali e politiche che – per il tramite della cultura e dell’azione soggettiva – attraversano la struttura di classe. Allo schema di Erikson e Goldthorpe si potrebbe contestare la vetusta polarizzazione fra lavoro manuale e lavoro non manuale, incapace di cogliere le nuove forme del lavoro, nonché dello sfruttamento, nell’era del post-fordismo e dei knwoledge workers. Polarizzazione vetusta su cui si basa, come vedremo, anche il cosiddetto indice di Alford, che è alla base delle diagnosi più recenti sul declino del voto di classe. Oppure che alla «proletarizzazione» del terzo raggruppamento in basso della fascia borghese (si pensi al declassamento socio-professionale di tanti colletti bianchi), potrebbe ben corrispondere l’«imborghesimento» della prima fascia in alto del raggruppamento proletario (composto magari da tecnici super-specializzati).
Uno dei maggiore studiosi neo-marxisti di classi sociali, Eric Olin Wright (1989), ci pare offra un quadro più esaustivo e convincente quando propone di ripristinare il canonico schema a tre classi – borghesia, piccola borghesia e proletariato – ma con l’integrazione di ulteriori tre collocazioni, definite «intermedie» e «contraddittorie», rappresentate dai dirigenti e supervisori, dai piccoli imprenditori e dai lavoratori dipendenti semi-autonomi. Un quadro che ci appare più aggiornato e consono di quello vetero-fordista, basato sul carattere più o meno manuale delle proprie mansioni.
Tuttavia, prescindendo dalla scuola di appartenenza, a nessuno possono sfuggire le conseguenze politiche che si riverberano dall’asimmetria dei rapporti di potere nel mercato e nel rapporto capitalistico di produzione. A cominciare dagli orientamenti di voto. Rispetto a quelli testé descritti, l’analisi di classe dei comportamenti elettorali ha tradizionalmente privilegiato un altro genere di approccio, più descrittivo e dunque misurabile, sul solo terreno gerarchico della struttura occupazionale e del reddito. In questo campo gli schemi di classe utilizzati sono generalmente meno articolati e più impressionistici di quelli che abbiamo rapidamente evocato. Il lavoro operaio, ad esempio, viene solitamente assunto senza ulteriori specificazioni, affiancato da altre occupazioni idealtipiche dell’impiego pubblico o privato (insegnante, artigiano, commerciante, atipico ecc.), come nel caso della maggior parte delle indagini sondaggistiche condotte in Italia sul comportamento elettorale.
Era stato Alford a fornire per primo, agli inizi degli anni sessanta, un indice empirico di rilevazione, mediante il quale misurare la propensione relativa al voto da parte delle varie classi. Come si accennava poc’anzi, il cosiddetto indice di Alford, non senza una certa approssimazione, divide l’elettorato in due classi principali – quella manuale e quella non manuale – e si calcola sottraendo la percentuale di lavoratori non manuali che votano per la sinistra dalla percentuale degli operai che votano per la destra. Lo stesso Alford, che più e meglio di altri aveva inizialmente teorizzato il nesso fra appartenenza e voto di classe, giungerà pochi anni dopo a rivedere la sua posizione originaria, ritenendo il voto di classe eroso dal carattere sempre più complesso della stratificazione sociale e dal modo diverso con cui i partiti politici se ne sono fatti col tempo interpreti (1967). Nel linguaggio della politologia anglosassone si parla di class dealignment.
Numerosi studi comparativi, negli ultimi venti anni, hanno rilevato un forte declino del voto di classe nella maggior parte dei paesi più industrializzati (Clark, Lipset, 1991; Franklin et al., 1992; Inglehart, 1997; Nieuwbeerta, Ultee, 1999; Gijsberts, Nieuwbeerta, 2000; Corbetta, Segatti, 2003; Itanes, 2006), nella direzione operai/sinistra versus destra. Lane ed Ersson (1994) hanno notato come negli anni settanta e ottanta vi sia stato un diffuso calo del voto di classe, rispetto ai due decenni precedenti, con l’eccezione di Italia e Francia, che in quell’arco di tempo hanno invece registrato una tendenza opposta, e temporanea, al realignment. Lipset, che già agli inizi degli anni sessanta aveva con altri intempestivamente profetizzato la «fine dell’ideologia», ribadisce più tardi la tesi secondo la quale «la natura del coinvolgimento politico cambia quando il livello del benessere aumenta: al crescere della ricchezza, le persone danno per scontate le questioni fondamentali e rivolgono il loro interesse verso lo stile di vita e il tempo libero. Individui più giovani, più istruiti e più benestanti che vivono in società più ricche […] si allontanano dalla politica di classe tradizionale» (Clark, Lipset, 1991, p. 403). Per l’Istituto Cattaneo «i fattori che tradizionalmente venivano considerati cause strutturali dell’orientamento politico (la classe, la religione, le professioni, il contesto culturale) sembrano perdere quasi tutto il loro potere esplicativo» (Itanes, 2006, p. 38) aprendo la strada a un’identificazione di fattori soft, di carattere cognitivo e psicologico.
A fronte delle posizioni fin qui riferite, vi sono anche studiosi molto autorevoli di comportamenti elettorali (Evans, 1999; Thomassen, 2005; Manza, Hout, Brooks, 1995; Scott, 2002; Andersen et al. 2006), che sulla scorta di rilevazioni statistiche ben più complesse del vecchio indice di Alford negano, a livello comparato, l’assunto principale della tesi del declino del voto di classe, preferendo generalmente parlare di trendless fluctuation (Heath et al., 1985, 2001; Manza, Houth, Brooks, 1995; Evans 1999), dunque di una fluttuazione calante ma relativamente congiunturale, geograficamente circoscritta e comunque senza valenze irreversibili al declino. Secondo questi studiosi la classe sociale continua a essere una variabile centrale nell’interpretazione del voto, da contestualizzare sempre sia storicamente sia geograficamente, sulla base di variabili multiple, evitando conclusioni affrettate e apodittiche su fenomeno complessi e dall’andamento per lo più ondulatorio. Difficile, fra questi due schieramenti, prendere una posizione netta, sebbene la tesi della trendless fluctuation ci appare più saggiamente cauta nel suo non pretendere di generalizzare al mondo intero tendenze al declino, già neppure univocamente desumibili dalla ristretta area di paesi industrializzati cui alcuni studi fanno riferimento.
In effetti, a livello comparato, il nesso si sarebbe mostrato fluttuante in alcuni dei paesi più studiati. Così è certamente stato in Gran Bretagna, dove gran parte della letteratura specializzata nega recisamente una tendenza, netta e costante, al declino del voto di classe (Weakliem, Heath, 1999; Evans, 1999; Heath et al., 2001; Andersen et al., 2006). Dopo essere rimasto fra i più saldi negli anni del secondo dopoguerra, il voto di classe cala nei primi anni sessanta, risale durante gli anni della grande polarizzazione del conflitto industriale, a metà degli anni settanta, permane anche durante il lungo ciclo thatcheriano (a dispetto delle sconfitte laburiste)[5], per toccare il suo punto più basso nel 1997 e nel 2001, in concomitanza del voto in maggioranza al New Labour di Tony Blair[6].
In Germania il voto di classe crolla nell’immediato dopoguerra, s’impenna ai primi anni sessanta, scema nel decennio successivo, e da allora rimane piuttosto basso, con variazioni regionali – intrecciate alle radici culturali e religiose – di alcune aree, non prive di una qualche analogia col nostro paese. La vasta e benestante Baviera, tradizionalmente «nera» (l’equivalente, come è noto, del «bianco» in Italia), cattolica e democristiana anche fra gli operai; il nord protestante e industriale, storico bacino di voti per la socialdemocrazia; i Lander prussiani dell’ex Ddr, «rossi» già prima del nazismo, dove l’unificazione e la crisi industriale hanno determinato una significativa crescita del voto di classe, e di quello neo-comunista alla Pds, in particolare, fra operai e disoccupati.
In Svezia, dove il voto di classe si è sempre mantenuto sui livelli più alti del mondo industrializzato, l’apice viene raggiunto nel 1960, per poi calare – ma in misura contenuta – fino al 1970; ancora un calo nel 1980 e poi – dopo una lieve crescita agli inizi degli anni ottanta – una sostanziale stabilizzazione (Sainsbury, 1987). Alle ultime elezioni politiche, lo scorso settembre, i socialdemocratici – sconfitti dalla coalizione di centrodestra – hanno ottenuto il 56 per cento dei voti blue collars (35 per cento il totale) a fronte dell’11 per cento del principale partito del raggruppamento avversario (26 per cento il totale). In netto declino, invece, il voto di classe in Norvegia (Evans, 1999) e – con minore evidenza – in Danimarca.
Il voto di classe si è mantenuto elevato anche in Spagna, dove il Psoe è riuscito per anni a conservare un robusto ancoraggio fra i ceti operai, gli impiegati pubblici e i pensionati, disposti a sostenere i governi di Felipe Gonzalez per tre mandati consecutivi (1986, 1989 e 1993), malgrado lo scenario occupazionale risultasse, in quegli anni, tutt’altro che entusiasmante (Hamann, 2000). Un forte spostamento a destra del voto operaio si è avuto in occasione del secondo mandato per Jose Maria Aznar, nel 2000, quando il Pp ha ottenuto la maggioranza assoluta dei voti e i socialisti perso oltre due milioni di voti.
I più recenti studi sul voto in alcuni paesi ex-comunisti rivelerebbero una tendenza opposta a quella che – nel resto dell’occidente – è stata interpretata come la fine del voto di classe. Tendenza al realignment, piuttosto, cresciuta progressivamente dopo la caduta del muro di Berlino e durante la transizione democratica, nel corso degli anni ’90 (vedi Mateju, Rahakova, 1999; Gijsberts, Nieuwbeerta, 2000). Un discorso analogo può essere fatto anche per alcune democrazie dei paesi del sud del mondo, come l’India, e soprattutto per la nuova America Latina (Venezuela, Brasile, Uruguay, Cile, Argentina, Bolivia).
Va detto che in una prospettiva sociologica non necessariamente marxista, voto operaio e voto di classe non sono sinonimi. Il lavoro operaio ha legittimamente goduto di uno statuto privilegiato nella tradizione teorica e politica della sinistra di ispirazione socialista, in virtù della sua dislocazione nel cuore dei rapporti di produzione capitalistici e per via della sua più agevole attitudine a formarsi una coscienza di classe. Non importa, dice Marx, qual è il contenuto specifico del lavoro compiuto; importa se esso, scambiato da merce con il capitale, è destinato a produrre plusvalore. Da questo punto di vista il voto del lavoro dipendente privato può essere anch’esso ricondotto alla nozione del voto di classe, pur non trattandosi di voto operaio. Si tratterebbe del «tutto» – il lavoro salariato – rispetto a una «parte» soltanto di esso. Più complessa, da una prospettiva marxista, l’analisi socio-politica del lavoro pubblico, non direttamente ascrivibile ai processi di valorizzazione capitalistica, ma assai rilevante dal punto di vista del ruolo dello Stato nelle dinamiche della composizione di classe nazionale e sul terreno del welfare e della riproduzione sociale.
Vi è poi un’ulteriore angolazione visuale da prendere in considerazione. Il nesso fra appartenenza di classe e orientamenti elettorali può forse apparire in declino sotto il profilo del voto operaio, risultando tuttavia confermato e consolidato dal comportamento elettorale, in particolare dall’abbassamento significativo dell’affluenza al voto da parte delle fasce più deboli della popolazione (Manza et al., 1995), frustrate dalle politiche sempre più indifferenziate dei partiti di sinistra. A una conclusione analoga giungono alcuni studi sul voto negli Stati Uniti, dai quali risulta sì – e dal lontano 1948 – un dealignment fra classe e voto (Nieuwberta, de Graaf, 1999), ma non fra classe e astensionismo, che invece avrebbe conosciuto un nesso sempre più marcato nell’elettorato proletario (Fox-Piven, Cloward, 2000), sempre più privo – secondo un indirizzo già analizzato da Sombart – di una propria rappresentanza politica, di ispirazione socialista o socialdemocratica, sufficientemente riferita alle aspettative e ai bisogni dei ceti subalterni.
Emblematico il caso inglese, dove il sistema elettorale e l’evoluzione politica del New Labour non consentono reali alternative agli scontenti «di sinistra» del blairismo. Nel 2001 Blair vince le elezioni politiche e porta il Labour al secondo mandato consecutivo, ma nel paese si registra il record storico di astensionismo, pari al 40,6 per cento degli aventi diritto. Nel 2005, al terzo rinnovo, i laburisti vincono col 35,19 per cento dei votanti (61 per cento), ma con appena il 21,59 degli aventi diritto. Si calcola che 2,8 milioni di elettori laburisti si siano astenuti, con tassi di partecipazione al voto che – nelle storiche roccaforti rosse del nord – non arrivano al 44 per cento (zone operaie di Glasgow, di Leeds o del Tyneside) o addirittura al 35, come nel caso dell’area portuale di Liverpool (Watkins, 2004). Un altro esempio: al ballottaggio delle elezioni presidenziali francesi del 2002, quando nessun candidato di sinistra era più rimasto in corsa, l’astensionismo fra gli operai ha raggiunto il 44 per cento (Mouriaux, 2002). All’opzione-protesta (voice) sarebbe subentrata – per usare le note categorie di Hirschman (1970, trad. it. 1983) – una opzione-uscita (exit) [7].
In Italia si ritiene comunemente che la partecipazione al voto sia in media fra le più alte del mondo industrializzato e che la quota, crescente, di astensioni si distribuisca abbastanza equilibratamente fra le classi sociali. Un giudizio sostanzialmente corretto nel primo caso, un po’ più incerto nel secondo. Se si considera l’andamento dell’astensionismo nelle democrazie dell’Europa occidentale del dopoguerra, l’Italia – con una media del 10,18 per cento - si colloca al penultimo posto, davanti al Belgio, e dunque con un tasso di partecipazione elettorale fra i più alti del mondo industrializzato. Occorre tuttavia riflettere sul fatto che dal 1976 al 2001 il totale di voti inespressi sia passato dal 9,2 per cento (di cui 6,6 di astenuti) al 24,8 per cento (di cui 18,8 di astenuti), col picco del 29,2 per cento alle elezioni europee del 1999 e il 27,4 alle regionali del 2000; qualcosa come 12-14 milioni di elettori (Raniolo, 2002; p. 208). In leggera controtendenza il dato delle politiche del 2006, nelle quali la forte radicalizzazione dello scontro elettorale avrebbe favorito – in base a ciò che Mannheimer, già nel 2001, aveva definito «mobilitazione drammatizzante»[8] – una significativa crescita della partecipazione elettorale. Non ci sono invece molti dati per ciò che concerne la composizione sociale dell’astensionismo italiano, rispetto al quale – tuttavia – sembrerebbe prevalere una componente di persone con bassa scolarizzazione e relativa marginalità nel mercato del lavoro: casalinghe, pensionati, disoccupati (Tuorto, 2006). Ceti subalterni dunque, «oggettivamente» interessati alle politiche economiche e sociali della sinistra, e che tuttavia – «soggettivamente» – si rivelano da sempre sensibili al richiamo populista e autoritario delle destre.

3. Il voto di classe in Italia

3.1 Il voto operaio italiano: tendenze storiche e peculiarità
Come si accennava all’inizio, varie indagini empiriche e campionarie – riportate in altri capitoli di questa rivista – convergono nel rivelare come, nelle elezioni politiche del 2006: a) i lavoratori dipendenti, e gli operai fra questi, abbiano in maggioranza votato per il centrosinistra (Cs); b) con l’importante eccezione delle regioni del nord, nelle quali il centrodestra (Cd) raccoglie un numero significativamente superiore di voti operai rispetto al Cs.
Secondo lo studio condotto dall’Ires-Swg (2006), il Cs avrebbe totalizzato il 51,5 per cento fra operai, esecutivi e commessi, dei consensi a livello nazionale, a fronte di un 46,9 del Cd. Uno scarto su cui conviene sostanzialmente anche la ricerca di Paolo Feltrin (2006). Entrambe rivelano tuttavia una maggioranza di voti al centrodestra nelle regioni a più alta densità operaia, vale a dire quelle più tradizionalmente industrializzate e nelle quali si producono le quote regionali più elevate di Pil (Lombardia; Veneto). Qui il voto operaio per il Cd distanzia di 8,2 punti percentuali il Cs, che in questa fascia della popolazione settentrionale si ferma sotto la soglia del 38 per cento (37,5). Lo studio di Feltrin, che diversamente da quello Ires-Swg distingue fra nord-ovest e nord-est, registra uno scarto lievemente favorevole al Cd nel primo caso (+1,4 per cento), e un altro – ben più pesante – nel secondo (+20,8).
Secondo un recentissimo monitoraggio realizzato dall’autorevole Istituto Cattaneo il 14,3 per cento degli operai si auto-colloca nel Cd, il 12,5 nel centro e l’11,2 nel Cs (Itanes, 2006; p. 41). Il Cs risulterebbe ampiamente maggioritario fra i lavoratori dipendenti con alte qualifiche, tanto nel settore privato quanto nel settore pubblico. Quest’ultimo, in particolare, diviene il più robusto nucleo socio-occupazionale dell’elettorato di Cs, con picchi particolarmente elevati fra gli insegnanti, categoria altamente secolarizzata e dislocata in uno degli snodi principali del sistema di welfare. A testimonianza del nesso che permane e si fa più forte – non soltanto in Italia – fra lavoro pubblico, sistema di welfare e programmi politici del Cs. Nel settore privato, invece, il 48,3 per cento degli interpellati si colloca nel Cd, contro un 30,2 nel Cs. Dati, questi ultimi, che trovano sostanziali riscontri anche sulle scelte di voto rilevate dalle indagini di Ires-Swg e di Paolo Feltrin.
Non si tratta, in vero, di dati particolarmente sorprendenti. Fra i paesi maggiormente industrializzati, l’Italia si posizione da sempre fra quelli in cui il nesso fra appartenenza di classe e voto politico è apparso più tenue (Corbetta, Caciagli, 2002; Corbetta, Segatti, 2003). Utilizzando il già menzionato indice di Alford sul rapporto fra voto e appartenenza di classe, il nostro paese otteneva anni or sono 14 punti, di una lunghezza inferiore ai 15 della Francia, sensibilmente di meno della Germania (26), assai lontani da alcuni paesi scandinavi (fin oltre 50) che – in questo genere di studi – si confermano l’area nella quale più forte permane il nesso fra voto e classe (Nieuwbeerta, Ultee, 1999; Bellucci, 2001). In una scala internazionale, solo gli Stati Uniti e il Canada si collocano generalmente dopo di noi.
Che la sinistra politica, in Italia, non goda della maggioranza del voto operaio, lo si rileva sin dalle prime elezioni politiche del dopoguerra, nel 1948, quando il Fronte social-comunista (Fdp) – protagonista della lotta partigiana e degli scioperi insurrezionali nelle grandi fabbriche – si ferma, nel nord industriale e operaio, al 30 per cento, lievemente al di sotto del dato nazionale. Sempre al nord, nel 1953 e nel 1958 il Pci, da solo, raccoglierà il 18 per cento, persino meno che nel Mezzogiorno rurale e sotto-proletario; il peggior risultato di sempre, se si eccettua il tonfo ancora più grave del 1992, quando la somma dei due partiti derivati dal vecchio Pci – Pds e Rifondazione comunista – raccoglie al nord un magrissimo 16,9 per cento. Si resta sotto anche nel 1994 – quando fa scalpore l’elezione di un candidato del centrodestra nel collegio elettorale di Torino-Mirafiori – e nel 2001, quando l’Ulivo totalizza un 40,2 per cento fra gli operai, laddove la Casa delle Libertà arriva al 46,3 (Fonte: Istituto Cattaneo).
I dati migliori si concentrano fra il 1968 e il 1976, quando la crescita sembra assumere connotati impetuosi[9]. Dopo il 1976 si comincia a scendere progressivamente, sino alla prima metà degli anni novanta, quando nel frattempo – insieme al sistema elettorale – si è cambiato il nome e vi è stata la scissione fra Democratici di sinistra e neo-comunisti di Rifondazione. Nel 1963 il Pci raccoglie il 29 per cento del voto operaio. Nel 1968 Pci e Psi prendono rispettivamente il 26,9 e il 14,5 per cento, che fra gli operai sale al 30 per cento per il primo e al 19 per il secondo. Alle elezioni politiche del 1972 il Pci prende il 27,5 per cento in totale, e il 37,9 fra gli operai; il Psi, rispettivamente, il 9,6 per cento, e il 16,5; insieme hanno finalmente la maggioranza assoluta del voto operaio. Ma il voto di quegli anni costituirà in Italia una trendless fluctuation (Manza, Houth, Brooks, 1995; Heath et al., 2001) alla rovescia, rispetto ai processi elettorali degli altri maggiori paesi industrializzati. Alla normalità di un voto operaio minoritario a sinistra, subentra transitoriamente un’inversione dei rapporti. La zona bianca del nord-est resiste – pur calando – all’avanzata delle sinistre; la Dc si attesta in quegli anni intorno al 50 per cento in Veneto e intorno al 40 in Lombardia. Se si prendono le 10 province italiane con la più alta incidenza percentuale del lavoro dipendente industriale[10], risulta come in tutte le tornate elettorali comprese fra il 1972 e il 1980 (1972, 1975, 1976, 1979) il Pci – il maggiore partito della sinistra italiana – non arrivi neppure a un terzo di questo elettorato, e comunque sempre significativamente meno che della media nazionale su tutte le fasce della popolazione. A una media nazionale del 31,7 per cento nel 1976, il Pci prende il 27 nelle 10 province più operaie di Italia; al 26,8 per cento nazionale del 1979, il 22,9; al 25,4 per cento del 1980, il 22,3. Le performance migliori si danno nelle maggiori province industriali del Piemonte (Torino, Novara e Vercelli), con le punte più basse nelle roccaforti bianche del Veneto (Treviso e Vicenza) e della valli bergamasche e comasche.
Dunque neppure negli anni settanta – col forte avanzamento delle sinistre in tutto il paese – i partiti di sinistra riusciranno a rovesciare stabilmente i rapporti elettorali di forza all’interno del lavoro operaio industriale. Soprattutto non sembra esservi corrispondenza – in generale – fra gli elevati livelli di identificazione con la classe lavoratrice da parte degli elettori del Pci[11], e quelli della classe lavoratrice con il Pci[12].
Posto però, come si diceva poc’anzi, che il voto operaio è solo una parte – simbolicamente assai rilevante – del lavoro dipendente (o salariato), diviene interessante rilevare se, con riguardo a questo contenitore più ampio, le cose mutino di segno e significato[13]. E in effetti le cose cambiano considerevolmente, poiché – tra gli impiegati pubblici e tra quelli privati – il centrosinistra raccoglie una maggioranza di consensi, anche molto ampia, in pressoché tutte le aree territoriali, con la sola eccezione degli impiegati privati del nord, dove lo scarto si affievolisce sino a raggiungere una sostanziale parità.
Come sottolineano i curatori dell’indagine Ires-Swg, la «questione settentrionale» – che c’è e va riconosciuta – non deve tuttavia distrarre da un fatto: complessivamente il mondo del lavoro dipendente ha dato la sua preferenza al centrosinistra (Megale, 2006)

3.2 Il fattore religioso e quello territoriale nella questione settentrionale
Per capire la peculiare distribuzione del voto nel nostro paese occorre avere chiara in mente l’importanza che le culture territoriali hanno esercitato, ed esercitano tuttora, sulle scelte di voto ai maggiori partiti italiani (Trigilia, 1986). Divisioni territoriali che si sono «innervate» – ben più che con la struttura di classe – con la frattura religiosa che, nell’arco della storia repubblicana, ha dimostrato una rilevanza più forte nelle regioni del nord – in tutto il nord – oltre la tradizionale zona bianca e anche rispetto a quella avuta nel Mezzogiorno (Segatti, 1999, p. 62). Un dato cui deve aggiungersi la sostanziale stabilità degli orientamenti politici espressi, per un partito o una coalizione, dall’elettorato italiano (Pagnoncelli, Vannucci, 2006)
Lipset e Rokkan (1967), nel loro studio comparato sulle democrazie più avanzate, avevano rilevato come la frattura religiosa, insieme a quella fra centro e periferia politica di un paese, costituisca – prima ancora che quella classista fra capitale e lavoro – una caratteristica che, risalente alla fase di costituzione dell’unità nazionale di molti paesi, ne ha condizionato la formazione dei partiti politici (Knutzen, 2004). L’insediamento democristiano prima e leghista dopo, nelle regioni «bianche» del nostro nord-est, rivelerebbe bene i tratti di una subcultura politica, profondamente pervasa dalla polemica anti-laicista e anti-centralista per la quale – anche durante i decenni in cui si è stati partiti di governo – non si è mai cessato di coltivare un localismo anti-politico e anti-statale (Diamanti, 1997). Il successo della Lega, seguito allo sgretolamento della Dc e del suo sistema di mediazioni, contribuisce ad attestare come «il territorio, la realtà locale, divengano riferimenti dell’identità. Fonti ideologiche alternative alla religione, alla classe e per questo utilizzate contro lo Stato; contro la politica, il sistema politico tradizionale, lo Stato centrale» (Diamanti, 2003, p. 61).
Aldo Bonomi ha scritto: «Quello che è rappresentato come il grande Nord, nei fatti è un arcipelago di contraddizioni e conflitti tra territori, sistema produttivi e forme di lavoro che vanno esaminati proprio ricercando la capacità dei territori di aumentare le funzioni di reti lunghe territoriali, oltre la pura dimensione del territorio come forza produttiva» (1997). Bonomi identifica ben sette diversi nord, e quello specifico del nord-est viene definito come un modello produttivo tendenzialmente anomico, «basato più sull’autosfruttamento che sull’emancipazione fra i soggetti, in cui figurano al lavoro i moderni schiavi (i terminali passivi della sub-fornitura), i liberti (impiegati alternativamente nella sub-fornitura e nell’esternalizzazione) e i liberi (pochi), cioè le imprese che governano i processi produttivi territorializzati verso un modello basato sull’autorganizzazione» (1997, p. 123). Altri studiosi, ugualmente attenti della «questione settentrionale», concordano pienamente sul fatto che il nord non è uno solo (Diamanti, 2003), distinguendo quanto meno fra il nord-ovest, laico e culla della grande fabbrica fordista e metropolitana, e il cui simbolo rimane Torino; il nord della new economy e della produzione di beni immateriali, con capitale Milano; infine il nord-est pedemontano della piccola impresa flessibile e del distretto industriale, il pezzo settentrionale di quella «terza Italia», così definita per differenziazione dal triangolo industriale e dal Mezzogiorno, e di cui farebbero parte anche molte province del centro.
Con riguardo al comportamento elettorale, l’indagine realizzata dall’Ires-Swg adotta una ripartizione territoriale in quattro macro-aree regionali, una delle quali – il nord – non pare tenere adeguatamente conto delle suddette articolazioni, economiche e socio-politiche. Tuttavia, l’utilizzo dell’area macro-regionale «nord» ricorre anche in altre indagini di questo tipo, e lo stesso Diamanti vi fa frequentemente ricorso nei suoi attenti monitoraggi sul comportamento sociale e politico degli italiani. Nel suo Bianco, rosso, verde e.. azzurro (2003) dimostra, con dovizia di dati e mappe colorate, come al nord fra il 1948 (Fdp) e il 1992 il Pci abbia superato il 30 per cento solo nella prima metà degli anni settanta. Meglio assai, comunque, di quanto ottenuto dai Democratici di sinistra nelle tornate politiche della seconda Repubblica, quando il Pds/Ds totalizza nell’ordine, al nord: l’11,9 per cento nel 1992, il 14 nel 1994, il 15,2 nel 1996, il 12,9 nel 2001 (il peggior risultato del dopoguerra). Nelle elezioni del 1994, 1996 e 2001, i Ds non solo non risultano quasi mai primo partito (fanno eccezione le province liguri del levante e Mantova), ma non sono neppure il secondo in tutto il settentrione del paese che va dalle province nord-orientali del Piemonte sino al Friuli Venezia Giulia, con l’eccezione di Venezia e delle zone a ridosso del delta padano. Province dove, al contrario, la Dc ha totalizzato in serie – per decenni – successi superiori al 45 per cento. Attraverso il gioco interno delle correnti e dei rispettivi terminali associativi – si pensi solo al ruolo di «Forze Nuove» in seno alla Cisl, o alle Acli, col suo milione e mezzo di iscritti negli anni ruggenti del conflitto operaio – questo partito è stato per decenni capace di intercettare e dare rappresentanza a una vasta base sociale interclassista. La sociologia industriale degli anni sessanta (ad esempio Loockwood o Popitz)[14] conierà l’espressione di operaio «privatizzato» o «deferente», per descrivere questa tipologia di lavoratori privi di una coscienza conflittuale di classe. Un sistema capillare di casse agricole, associazioni contadine e artigiane, padronati e sindacato, parrocchie e organizzazioni di volontariato, in grado di convogliare verso lo stesso partito del padrone il voto del suo operaio. Il corrispettivo «bianco», dunque, di quelle zone «rosse» che, nelle regioni centrali del paese, hanno garantito la tenuta complessiva della sinistra, e del Pci-Ds in particolare, anche quando era condannata a un’opposizione senza sbocchi. Anche lì, a parti rovesciate, la subcultura politica territoriale – coi suoi peculiari valori civici e le sue ramificazioni associative – è stata in grado di aggregare un consenso di matrice interclassista, nel quale era il padrone – questa volta – a votare per il partito dei suoi operai (Trigilia, 1986). È grazie a una straordinaria tenuta nelle regioni rosse del centro, e a una crescita contenuta e a macchia di leopardo nel sud, che l’Italia può confermare la sua struttura politica duale, con un’Italia rossa al centro, circondata da un’Italia azzurra solidamente diffusa in tutto il resto del paese, con aree di verde nel nord-est (Diamanti, 2003, p. 93). O meglio ancora, forse, un paese diviso in tre, con un sud relativamente più aperto alla competizione fra le varie forze politiche.
In definitiva, le subculture politiche territoriali – in Italia – hanno attraversato e impregnato le scelte politiche ed elettorali con una forza che ha pochi riscontri fra i paesi più industrializzati. Subculture territoriali pesantemente condizionate da variabili diverse da quelle più strettamente economiche e di classe, e nelle quali il fattore religioso – declinato attraverso una solida infrastruttura di reti solidali e associative, non ultima quella sindacale espressa da un sindacato come la Cisl – ha giocato un ruolo di primaria importanza nelle scelte di voto degli operai, con strascichi che paiono perdurare a quel processo di secolarizzazione e de-tradizionalizzazione dei legami sociali, che non solo non ha risparmiato il nostro nord-est, ma che sembra averlo precipitato in un edonismo consumistico e anomico, estraneo all’antico solidarismo democristiano, ma di certo ancora di più ai valori che il centrosinistra intendere promuovere e interpretare.

3.3 Il fattore socio-economico:
nuovo lavoro autonomo e piccole e medie imprese
Al fattore religioso e territoriale se ne aggiungono ovviamente altri, correlati essenzialmente alla specifica configurazione produttiva e occupazionale del nostro paese, e di alcune sue aree in particolare.
Il paradigma post-fordista della produzione snella e della fabbrica modulare, nella patria della piccola impresa artigiana, dei distretti industriali e della «specializzazione flessibile», postula l'esternalizzazione extra muros di crescenti segmenti della produzione, con imprese a rete e filiere lunghe di sub-fornitura, che polverizzano molecolarmente sul territorio il lavoro e le imprese. Il territorio, e non più o non solo l'impresa, costituisce l'unità spaziale di riferimento entro la quale si insedia e si dispiega il processo produttivo. L'Italia è un paese in cui la dimensione media delle imprese è significativamente inferiore rispetto agli altri principali paesi industriali. Solo nel settore della grande distribuzione commerciale, come dovunque nel mondo, si assiste a una tendenza di segno opposto.
Un’altra importante tendenza è quella che attraversa e confonde il vecchio e canonico confine tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, con un netto allentamento dei vincoli legali e contrattuali che regolano il rapporto di lavoro subordinato standard, ampliando la gamma e la funzionalità di nuove forme contrattuali. Qui notiamo due ordini di tendenze : la diffusione di rapporti di lavoro subordinati atipici, caratterizzati da un regime di tutele più debole, substandard, rispetto a quello tradizionale del lavoratore subordinato a tempo pieno e indeterminato (part-time, a tempo determinato, in somministrazione, a chiamata ecc.); la diffusione di forme di lavoro autonomo, semi-autonomo o «parasubordinato» che modificano significati e proporzioni fra lavoro autonomo e lavoro subordinato, nonché la percezione specifica e individuale del proprio status socio-occupazionale. Particolarmente interessante ci appare il fenomeno in cui esternalizzazione dei processi e statuto autonomo dei rapporti di lavoro si intersecano nell'impressionante proliferare di collaborazioni professionali, con possessori di partita Iva o imprese individuali. Sono quelli che, con una fortunata espressione, sono stati chiamati i «lavoratori autonomi di seconda generazione» (Bologna, Fumagalli, 1997). Alcuni settori, particolarmente connotati per il carattere «immateriale» del lavoro richiesto (relazionale, cognitivo), danno già alle imprese caratteristiche «virtuali», non solo per ciò che attiene alle merci (il prodotto) ma anche per i modelli organizzativi impiegati (il processo). Si tratta di lavoratori perlopiù non manuali, economicamente e socialmente dipendenti ma giuridicamente autonomi, e in quanto tali accorpati alla vasta famiglia del lavoro indipendente, insieme alle libere professioni, il cui status – sotto qualunque profilo socio-economico – attesta aspettative e bisogni assai diversi da quelli del lavoro para-subordinato o quasi-autonomo.
La tradizionale polarità autonomia/subordinazione, insidiata sul terreno della tipizzazione socio-giuridica, assume esiti dirompenti sull’asse fattispecie-effetti. Essere l’una cosa piuttosto che l’altra può voler dire usufruire o essere interamente esclusi dalla gran parte delle misure lavoristiche e di welfare predisposte in favore del lavoratore subordinato. Il diritto sociale contribuisce dunque, in misura molto rilevante, a definire i vecchi e i nuovi confini di classe, contribuendo a plasmare – fra inclusione ed esclusione – il sistema della disuguaglianza (Marshall, 1949; Esping-Andersen, 1990). La traduzione in policies degli input provenienti dal mondo del lavoro meglio strutturato sotto il profilo organizzativo della rappresentanza, ha certamente esteso i confini dell'inclusione della cittadinanza, sociale e non soltanto industriale, senza per questo abolire i confini medesimi (Offe, 1986). E non poteva essere diversamente poiché, come è stato correttamente notato, «la razionalità del diritto produce disuguaglianza anche all'interno dello stesso sistema giuridico, mentre i correttivi di cui il sistema dispone funzionano solo con l'attivazione di ulteriore disuguaglianza»[15].
Secondo i già citati dati Ires-Swg sulle elezioni politiche del 2006, alla Camera hanno votato per il centrodestra imprenditori, commercianti, artigiani, lavoratori autonomi, liberi professionisti (vedi anche gli altri contributi in questa rivista).
Nelle fabbriche del nord-est, in molti casi vera patria del made in Italy e del prodotto di esportazione, lo spazio globale indurrebbe a un disagio trasversale, comune a padroni e operai, insidiati dalla concorrenza a basso costo dei nuovi competitors internazionali; a cominciare dalla Cina e dall’Europa dell’est. Ancora Bonomi parla di «proletaroidi» che «lavorano dentro le mura dell'impresa sviluppando empatia e identificazione, lavorando/comunicando dentro l'impresa come se fosse la propria, e fuori le mura come se si fosse lavoratori salariati con tempi e ritmi stabiliti e verificati alla scadenza della fornitura» (Bonomi, 2000, p. 48). Un’analisi molto interessante e utile per capire le scelte politiche ed elettorali di ampie fasce della classe operaia del nord-est.
Il fenomeno della globalizzazione dei mercati innesca forme spinte di insicurezza e rigetto, che fra i datori si traducono in una scelta sempre più diffusa verso le delocalizzazioni dove il costo del lavoro è più basso, e fra i lavoratori in una protesta contro lo Stato centrale, colpevole di non fare abbastanza – tramite il fisco e l’alleggerimento burocratico – per trattenere gli imprenditori che se ne vanno via; di non fare abbastanza – tramite politiche restrittive dei flussi – contro gli immigrati, considerati una minaccia sia per l’occupazione sia per la sicurezza fisica. Timori alimentati e strumentalizzati, a fini di consenso, da quegli autentici «imprenditori della paura» che – nei partiti e nei giornali della destra – soffiano quotidianamente sul fuoco del conflitto identitario e sulla paura di non esser più «padroni in casa propria».
La globalizzazione e l’Europa divengono dunque un nuovo terreno di dialettica sociale (Zolo, 2005; Cantaro, 2006), con una classe operaia che – in Italia come altrove in occidente – percepisce solo i costi e i rischi di ciò che invece, per le élite borghesi e cosmopolite, costituisce un eccitante ampliamento delle proprie opportunità di vita.

3.4 Il berlusconismo
Vi è poi, last but not least, l’irruzione di Berlusconi e del suo peculiare modo di intendere e fare politica. Da vari studi risulta infatti come l’importanza della leadership di Berlusconi si riveli estremamente pronunciata nella scelta di voto degli elettori di centrodestra (Maraffi, 2003; Barisone, 2005). Se, da un lato, il berlusconismo si iscrive a pieno titolo nell’alveo del populismo occidentale degli anni novanta (Taguieff, 2003), di cui diremo meglio più avanti, dall’altro, esso tende a manifestarsi con un’intensità e a un livello senza, o con poche, analogie. Un elemento che non è ovviamente sfuggito a molti osservatori, che per questo motivo propendono per una storia nazionale di lunga durata, innestando questo fenomeno in ciò che Gobetti e Fortunato avevano già scritto sul fascismo: l’autobiografia di una nazione; una rivelazione piuttosto che una rivoluzione della società italiana[16].
Se non proprio antropologica, quella del berlusconismo è divenuta in questi anni una categoria politologica fra le più intensamente frequentate nel dibattito teorico degli analisti[17]. In molti convergono sull’esigenza di guardare al berlusconismo come a un intreccio complesso di interessi economici ed eclettismo ideologico, di spinte emotive ed elementi psicologici che strutturano il senso comune di massa. Una miscela indissolubile fra materiale e simbolico, di cui la destra italiana ha saputo efficacemente intercettare umori e aspettative.
Il populismo, si è detto, si caratterizza per la sua attitudine a dare voce e legittimazione agli istinti peggiori e più profondi di un paese. Da questo punto di vista il populismo del sistema Berlusconi si mostra in grado di rispecchiare e lusingare le ataviche debolezze civiche del nostro paese – fra cui qualunquismo, trasformismo, illegalismo, familismo amorale – volgendole politicamente a proprio favore[18]. Una strategia imperniata sulla dismissione dei beni pubblici, sulla più completa subalternità della politica all’economia, su un’ideologia plebiscitaria insofferente ai limiti imposti dal formalismo democratico e dallo Stato di diritto (Ferrajoli, 2003), sulla colonizzazione mediatica dell’immaginario consumistico, sulla ricchezza come unico vero metro del valore individuale (Revelli, 2006).
Anche il lavoratore dipendente avrebbe introiettato stili e orientamenti individualistici, cosicché «anche figure socialmente aggregate sul piano dei rapporti di lavoro si disaggreghino e diventino totalmente privatistiche in altre sfere della loro vita», dal consumismo alla seconda casa abusiva, con riflessi intuibili sul comportamento elettorale[19].
Vi sarebbe poi un universo estetico e simbolico peculiare al berlusconismo. Con Ortega Y Gasset la tentazione sarebbe quella di dire che «il fatto caratteristico del momento è che un’anima volgare, riconoscendosi volgare, ha l’audacia di affermare il diritto alla volgarità e lo impone ovunque» (La ribellione delle masse). E il pensiero corre subito al degrado televisivo, e dunque del costume, indotto dai canali Mediaset: da Drive In alle veline, al Grande Fratello; al segno delle corna in una foto ufficiale del Consiglio europeo; alle battute grevi su una donna capo di Stato straniero; al trapianto di capelli e alla bandana; alla retorica dell’anti-politica e dell’uomo qualunque, per non parlare poi della prosa e dei gesti del maggiore alleato di Forza Italia, la Lega Nord di Bossi, Calderoli o Borghezio. Ma Gasset era un grande reazionario e può dunque ingenerarsi un paradossale equivoco se di questo distanziamento aristocratico dal vulgus si facciano interpreti proprio gli eredi politici del movimento operaio. Meury e Surel (2000), e prima ancora Christopher Lasch (La ribellione delle élite), hanno messo in guardia dai rischi di una politica che snobba il popolo a favore delle élite, i comuni mortali a favore degli esperti, le aspirazioni al cambiamento di fronte alle ferree regole dell’economia. La critica del gusto, l’intransigenza giudiziaria e il tecnicismo finanziario non possono esaurire le politiche di una parte della società che ambisce ad archiviare gli eccessi e la sgradevolezza di questa stagione.

4. Il voto operaio dal punto di vista bottom-up della classe e dei suoi mutamenti
Indagare le ragione del reale, o presunto, declino del voto di classe necessita di rivolgere l’analisi sul duplice versante in cui si consolida, o consuma, questo rapporto elettorale: quello bottom-up, vale a dire attraverso la classe sociale e la domanda politica che da essa si leva in ragione dei mutamenti storici che la attraversano; quello top-down, cioè l’offerta politica dei partiti e i riflessi che essa determina sotto il profilo delle tematiche legate alla classe (Evans, 2000). Cominciamo dal primo approccio, quello bottom-up.
La letteratura sociologica degli ultimi vent’anni ha visto un pullulare di pubblicazioni dedicate alla morte delle classi e alla fine del proletariato[20]. Si ricorderà senz’altro il titolo di un autore come Andrè Gorz, che pure aveva sentenziato alcuni anni fa l’«Addio al proletariato» (1980), nella prospettiva di un marxismo post-classista. Perché una diagnosi tanto severa? La risposta risiede nei profondi mutamenti che, nell’arco degli ultimi tre decenni, hanno investito ed eroso quella relativa centralità politica – se non proprio economica e sociale – assunta dalla classe operaia europea nella costituzione dei suoi moderni assetti istituzionali e democratici. Una trasformazione sia materiale sia simbolica e culturale, dei valori e delle percezioni diffuse. Nel primo caso si è soliti parlare di post-fordismo, nel secondo prevale una certa suggestione post-modernista (Harvey, 1993; Kuman, 2000), sul declino della grande narrazione moderna, di cui la classe operaia è senz’altro stata fra le principali protagoniste.
Il primo dato che rileviamo, nei paesi più sviluppati, è la terziarizzazione privata dell'occupazione e il declino dei settori industriali con più alta occupazione operaia; si pensi alla siderurgia, alla cantieristica navale, ai porti, alle miniere, al settore auto, ancora vitale ma con un numero di addetti che – fra i paesi più industrializzati – si è enormemente ridotto. Oggi si stima che nell’Unione Europea (ma anche negli Stati Uniti) non più del 15 per cento degli occupati, in media, appartengono alla classe operaia industriale. Il lavoro, come è stato efficacemente rilevato, si de-concentra e de-massifica (Accornero, 1997). Il fordismo, si è detto, «dis-integra» il lavoratore nei suoi saperi e nel suo potere di controllo sulla prestazione, ma integrandolo in enormi aggregati proletari ne favorisce la creazione di una coscienza di classe. Il post-fordismo fa esattamente il contrario: integra individualmente il lavoro, senza residui, nelle logiche dell'impresa, dis-integrandolo – nello spazio e nelle forme giuridiche – come soggetto collettivo (Revelli, 1995; Leonardi, 2001). Prassi sociali e ambiti dell'esistenza che – nel bene e nel male – erano stati risparmiati dal modello di comando taylor-fordista, vengono adesso sussunti dal capitale e «messi al lavoro» dai nuovi concetti della produzione (Revelli, 1995; Hardt, Negri, 2002). Spezzoni significativi del programma sindacale vengono oggi ripresi e integrati nelle nuove strategie imprenditoriali. In quest'ottica di impronta manageriale la nozione tradizionalmente sindacale di partecipation viene a coincidere con quella di involvement, legata a quella di fabbrica integrata e di total quality management (Hyman, Manson, 1995). Il substrato ideologico di questo approccio consiste nell'assumere l'innovazione tecnico-organizzativa in termini neutrali, qualcosa che ricompone a un livello superiore il conflitto tradizionale dei rapporti di lavoro. Gli interessi dei dipendenti perdono la loro identità e autonomia, cioè i due cardini su cui – fino a un passato non molto lontano – si erano fondate le richieste sindacali in tema di controllo operaio e di partecipazione democratica alla gestione dell'impresa. La subordinazione si attenua sotto il profilo socio-tecnico del comando, per dilatarsi a livello psicologico e culturale, oltre che su quello economico-funzionale.
Il ridimensionamento della classe operaia, e delle grandi ideologie che ne avevano lungamente accompagnato l'ascesa, modifica gli equilibri motivazionali che avevano tradizionalmente favorito, oltre che la militanza politica e il voto di classe, anche l'affiliazione sindacale dei lavoratori. Il declino della sindacalizzazione in quasi tutto il mondo industrializzato (Visser, 2006; Carrieri, 2005; Boeri et al., 2001; Hoffman, Waddington, 2001; Leonardi, 2001), insieme al drastico calo delle ore di lavoro perse in scioperi, concorrerebbe ad attestare, su territori affini a quelli che ineriscono alle scelte di voto, un tendenziale declino della classe operaia e della sua rappresentanza sociale e politica.
Tuttavia il conflitto di classe tradizionale, socio-economico e di natura eminentemente redistributiva, anche se più diradato che in passato, non è scomparso. Ne sono la riprova i ricorrenti fermenti che si susseguono qua e là per un rinnovo contrattuale o per la difesa di determinati diritti acquisiti. Ciò che tuttavia sembra essere mutato profondamente è il loro primato relativo, la loro perdita di centralità politica rispetto all’insieme di conflittualità che attraversa le nostre società. Mario Tronti ha scritto che «mentre cresce la quantità sociale complessiva del lavoro, cede la sua specifica qualità politica» (1998). Una perdita che si rileva attraverso «il suo riassorbimento nel tessuto di una conflittualità sociale multiforme, nella quale l’onnipotenza del conflitto non è accompagnata da nessuna gerarchizzazione, da nessuna divisione visibile della società in due campi, da nessuna ultima istanza che determini la congiuntura e l’evoluzione, da nessun altro vettore di trasformazione che non sia la risultante aleatoria delle costrizioni tecnologiche, delle passioni ideologiche e degli interessi di stato. In breve, situazione hobbesiana più che marxiana» (Balibar, 1996, p. 208).
Non meno pregnanti di quelli oggettivi appena menzionati sono gli effetti che la trasformazione in atto produce sul profilo identitario e soggettivo delle culture e dei riferimenti simbolici condivisi. Dopo avere lungamente interpretato il mercato del lavoro e le sue dinamiche a partire dalla centralità della domanda (il paradigma cosiddetto «economicistico»), dagli anni ottanta in poi la nuova sociologia economica ha posto un rinnovato interesse sul versante dell'offerta e sulla strategia dei soggetti, rilevandone – mediante un pluralismo interpretativo – i mutamenti a livello di reti sociali, fattori culturali, motivazioni individuali e orientamenti normativi.
In passato l'appartenenza a un comune humus e «ambiente socio-morale» saldava la dislocazione individuale e oggettiva in un determinato sistema comunitario sostanzialmente ascrittivo (famiglia, quartiere, sindacato, partito) con l'assunzione di immagini del mondo e di sé, di soggettività collettive relativamente coese sotto il profilo sociologico e politico. Oggi non sarebbe più così, o – per meglio dire – non più così nella misura che è stata per decenni, per secoli. Giddens parla di ciò in termini di «de-tradizionalizzazione dei legami sociali». La correlazione fra appartenenza di classe (oggettiva) e coscienza di classe (soggettiva), per il tramite di nozioni come «disuguaglianza» o «sfruttamento», risulta complicata da altre risorse, materiali e simboliche, di cui individui o gruppi ritengono di poter beneficiare a fronte della loro più o meno consapevole privazione dei mezzi produttivi o dell'assoggettamento all'estrazione di plusvalore. La disuguaglianza e lo sfruttamento indotti dal processo di estrazione del pluslvalore non sono certo scomparsi, ma ciò che si è appannato è il loro paradigma interpretativo, sia nella teoria generale sia nella percezione soggettiva.
Oggi la produzione forgia sempre meno i suoi soggetti e, come rilevava alcuni anni fa Massimo Paci, l'aumento degli spazi coperti dalla riproduzione sociale favorisce processi di disintegrazione atomistica e «identificazione selvaggia» (1982; p. 220). Questo processo di relativo affrancamento individuale dal proprio contesto di provenienza è stato interpretato in termini di «individualizzazione» (Beck, 1992), quest'ultima intesa come radicalizzazione di un processo insito nel progetto storico della modernità e come tale già colto sia da Marx sia da Weber. Individualizzazione e differenziazione sociale stringerebbero in una morsa l’analisi mono-causale delle classi, a favore di un approccio ibrido e multi-causale dei fattori che generano la formazione sociale (Pakulski, Waters, 1996). A essa si affiancano infatti modelli diversi e alternativi di auto-percezione, legati al genere, alla nazionalità o etnia, al credo religioso, ma anche alla collocazione nel sistema dei diritti o in quello dei consumi. Per Thift e Williams (1987) la struttura di classe è solo uno degli elementi del discorso sulle classi, dal momento che «la razza, la religione, l’etnia, il genere, la famiglia e gli apparati di Stato possono attenuare l’importanza delle barriere di classe e generare nuove forme di divisione sociale» (1987, pp. 5-7). Il femminismo e gli studi post-coloniali hanno fortemente concorso alla decostruzione post-modernista del vecchio primato classista nella formazione delle identità sociali. La sfera del consumo e del tempo libero viene sempre più caricata di valenze simbolico-identitarie (Baudrillard, 1976; Bourdieu, 1977), in grado di surrogare e compensare parzialmente le frustrazioni generate sul terreno lavorativo.
Al declino delle grandi strutture istituzionali e attiviste, a cominciare dai partiti politici, fa da contraltare lo sviluppo di nuove «comunità di gusto», di «tribù» o «comunità prossemiche», fondate sulla condivisione emozionale, da esprimersi attraverso rituali estetici ed estatici (Maffesoli, 2004). Un tipo nuovo di agire politico non convenzionale, molto più incentrato sul capitale culturale di quanto non avvenisse in qualunque altra epoca (Wieviorka, 2005; Magatti, De Benedictis, 2006). Sociologi e analisti politici hanno scorto nei nuovi movimenti sociali – sorti a partire dagli anni sessanta e settanta – il tramonto della politica di classe (Touraine, 1973; Gorz, 1980; Offe, 1986, Wieviorka, 2005), in favore di nuove istanze post-materialiste (Inglehart, 1977), capaci di raccogliere consensi trasversali fra i settori più sensibili e scolarizzati delle società tardo o post-industriali e convogliarle verso nuovi terreni di lotta.
Da questo punto di vista, gli operai – storico nucleo centrale di qualunque coalizione progressista sui temi economici del lavoro e dello stato sociale redistributivo – non paiono detenere alcun primato politico-morale sui nuovi terreni di scontro, sempre più rappresentati dalle istanze del femminismo, del rispetto e dell’inclusione sociale dei migranti, della famiglia post-tradizionale, dell’omosessualità, della secolarizzazione in campo religioso, della libertà di ricerca scientifica, della lotta per l’ambiente (Bourdieu, 1977; Lipset, 1981). Tutti ambiti nei quali la classe operaia rischia sovente di trovarsi sul versante conservatore e retrivo della barricata, con settori sempre più ampi del nuovo ceto medio – al contrario – schierati dalla parte liberal e progressista dei fautori della libertà e della tolleranza, del multiculturalismo, dell’inclusione e della solidarietà coi nuovi emarginati[21]. Ha scritto Taguieff: «Chi sta in basso esprime certo le proprie sofferenze, ma ciò che un’interpretazione esclusivamente miserabilista trascura è la forte domanda di autorità, di ritorno all’ordine, di ripresa in mano della situazione, che accompagna le indignazioni e le lamentele popolari» (2002; p. 5). Non vi è dubbio, ad esempio, che l’indulto sia stato il provvedimento di gran lunga più impopolare adottato fin qui dal governo Prodi. L’atteggiamento nei riguardi di quell’autentica categoria mitopolitica che è divenuta l’immigrazione, appare a questo riguardo emblematica della nuova dislocazione politica del vecchio e canonico asse sinistra-destra, con gli operai suscettibili al richiamo xenofobo della destra populista, e «le classi del sapere» (Bauman, 2006; p. 20), la borghesia più scolarizzata e cosmopolita, «riflessiva» e solidale, nelle file del centrosinistra (Ginsborg, 2005). L’analisi del voto, in Italia, ha dimostrato il forte peso della cultura sugli orientamenti degli elettori. Fra quelli del Cs il numero dei laureati risulterebbe di circa dieci punti superiore a quello riscontrato nello schieramento di Cd che – di contro – vince fra casalinghe e pensionati[22].
Va' anche riconosciuto che la classe operaia come Gemeinschaft, come comunità di valori e destino, à la Tonnies, si è data solo occasionalmente nel corso del novecento, quando si è progressivamente compiuto uno svuotamento e una disarticolazione della cultura popolare a opera di quella delle classi dominanti. Una decostruzione che nel nostro paese è stata particolarmente profonda, e che è in larga misura dipesa dalla vastità e rapidità dei processi di proletarizzazione e urbanizzazione coatta, forieri per lo più di sradicamento e spaesamento sociale. Partito e sindacato sono riusciti solo in parte, attraverso le risorse identitarie offerte dall’ideologia, a surrogare a questa endemica debolezza della società italiana (Pizzorno, 1980). Dopo il cedimento anche di quel residuo collante, della vecchia comunità operaia non è rimasta che una comunità di interessi (Gesellschaft), volta a ottenere miglioramenti redistributivi, ma all'interno di un visione complessiva del mondo mutuata dalla classe dominante.
La classe operaia inglese è stata probabilmente quella che, fra i paesi più industrializzati, ha più durevolmente mantenuto i tratti sociologici della Gemeinschaft, in grado non solo di resistere parzialmente alla visione del mondo della borghesia, ma di creare e offrire un universo simbolico ed estetico relativamente originale[23]. Per lo meno fino alla sconfitta dei minatori, a metà degli anni ottanta. E non è un caso se, insieme ad alcuni paesi scandinavi, la Gran Bretagna sia stato il paese dove il voto di classe ha mantenuto a lungo uno degli indici più alti. Le subculture della gioventù britannica, con le sue mode e i suoi generi musicali, costituiscono uno dei pochi esempi – insieme a quello degli afroamericani – in cui stili di derivazione proletaria si siano imposti universalmente fra le classi superiori (Hebdige, 1979; Chambers, 1985)[24].
Come hanno avuto modo di dimostrare Giddens (1973) e Parkin (1976), forte consapevolezza di classe non equivale affatto alla coscienza di classe nel senso che gli attribuisce la tradizione marxista, potendone persino pregiudicare lo sviluppo. Ampiezza, isolamento e coesione all'interno del gruppo di appartenenza, in questo caso la working class dei vasti conglomerati del Galles e del nord industriale e minerario, possono infatti diminuire fino a ottundere il senso di deprivazione relativa e con essa la coscienza sociale dell'inuguaglianza[25]. Questo spiegherebbe lo scarso antagonismo politico che negli anni sessanta venne contestato al proletariato britannico, dalla corrente althusseriana e più radicale della New Left Review (Tom Nairn o Perry Anderson), considerato adattivo, fatalista e corporativo nell'ambito della sua cultura autosufficiente e ghettizzata (di parere opposto, ricordiamo, Edward Thompson o Raymond Williams). La maggiore contiguità socio-abitativa fra classi diverse, in paesi come il nostro, ha invece favorito sia il rischio di assimilazione subalterna, anche attraverso il medium della cultura di massa, sia il senso di deprivazione relativa, premessa di atteggiamenti politici e culturali di stampo conflittuale e di classe.
In estrema sintesi potremmo dire, con qualche forzatura, che mentre il proletariato britannico ha sviluppato livelli elevati di coesione orizzontale e alterità controculturale, ma con livelli relativamente bassi di radicalismo politico e ideologico; altrove, in special modo in Italia, livelli anche alti di radicalismo politico e ideologico nei confronti della legittimità politica della classe dominante, non si sono tradotti nella sedimentazione orizzontale di autentiche e stabili alterità nei confronti della legittimità del dominio culturale della borghesia (Leonardi, 2001)[26]. Mentre nel primo caso l’enfasi cade sul tema della cultura e della «storia dal basso» della classe, nel secondo l’accento cade su quello del potere e del primato sulla classe della politica e dei gruppi dirigenti. Sebbene la sconfitta di questi anni non abbia risparmiato nessuno di questi due approcci, ci pare che la classe operaia italiana si sia rivelata alla lunga più vulnerabile di quella nordica, inglese e svedese in particolare, rispetto al messaggio fondamentale del populismo, qui declinato nella sua variante berlusconiana: ricco è bello, la ricchezza è la misura del proprio valore e individualmente ciascuno ce la può fare. Un universo simbolico in cui – come ha scritto Marco Revelli – la lotta fra atomi predatori non tollera più nessun «noi», poiché «qualsiasi processo collettivo viene vissuto come limite alla libertà personale. La popolarità del discorso sulle tasse starebbe in fondo in questa logica della sopravvivenza individuale»[27].
La vicenda storica della classe operaia europea contiene in sé molti dei dilemmi che si ripropongono oggi – in rapporto alla globalizzazione – nel dibattito fra multiculturalisti e neo-comunitari. Laddove l'apertura ai valori delle élite dominanti sembra tradursi in una sistematica omologazione in funzione subalterna e in un’abiura delle proprie origini, la chiusura di stampo comunitaristico rischia di produrre isolamento culturale, sciovinismo e intolleranza verso ogni forma di diversità al proprio interno[28].

5. Il voto di classe da una prospettiva top-down: l’offerta politica dei partiti
L’analisi sul voto di classe non può esaurirsi sul solo versante dell’elettore e della sua classe di appartenenza. Occorre indagare pure sul lato dell’offerta politica. Come ha rilevato bene Pizzorno (1980), i partiti non si limitano affatto a registrare gli umori cangianti e le domande della propria base sociale, ma concorrono in misura determinante a plasmarne, per lo più attraverso l’ideologia, il senso identitario di appartenenza e di solidarietà. Per attendersi un voto di classe è dunque lecito attendersi che vi sia una corrispondente proposta politica di classe (Corbetta, Parisi, 1988, p. 15; Bellucci, 2001, p. 215).
Le analisi sociologiche del voto tendono a privilegiare le mappe territoriali e socio-economiche del voto, tralasciando di considerare con analogo impegno il panorama dell’offerta politica dei partiti e delle coalizioni. Un’operazione complessa e scientificamente meno agevolmente misurabile, intorno ai mutamenti semantici e programmatici di partiti e coalizioni sempre più apertamente orientati a politiche a-classiste, inter-classiste, post-classiste, ma quasi mai – o solo in via del tutto residuale – dichiaratamente classiste. Tuttavia, se i mutamenti nella struttura di classe si ripercuotono sulle strategie dei partiti, non meno verosimile è l’intuizione secondo la quale i mutamenti nelle strategie dei partiti si ripercuotono negli orientamenti di voto all’interno delle classi.
L’analisi top-down del voto di classe, e dunque a iniziare dai partiti e dai loro mutamenti, ci inducono a distinguere, nel mercato elettorale, l’offerta proveniente dai partiti storici della sinistra, rispetto a quella delle destre, vecchie e nuove, in grado – e non da ora – di intercettare ampie quote di consenso proletario. Basti solo pensare ai movimenti etnico-nazionalisti, vecchi e nuovi, al nazi-fascismo, fino all’odierno populismo xenofobo e antifiscale.
Con riguardo ai primi, anni or sono, il politologo tedesco Otto Kirkhheimer (1966) aveva pronosticato un destino «pigliatutto» per partiti di ispirazione socialista e social-democratica, che più di altri – e sin dalle origini – avevano portato il segno di classe sui loro vessilli. Nella sua analisi veniva prevista una drastica riduzione del bagaglio ideologico del partito, una minore accentuazione del riferimento a una specifica classe sociale, l’apertura e l’accesso a opera di gruppi diversificati di interesse.
Il distanziamento obiettivo e crescente che fra destra e sinistra si viene determinando sul terreno post-materialista e del voto culturale, sembra pagarsi con una progressiva omologazione dei programmi partitici sul terreno dell’economia, nel quale risultano fortemente sacrificate le aspettative e i bisogni dell’elettorato popolare. Da tempo è in atto una tendenziale convergenza, pressoché dovunque fra i paesi occidentali più industrializzati, nell’offerta partitica delle politiche economiche e sociali (Bartolini, Mair, 1990). Si pensi solo al discorso dominante e trasversale alle élite liberali e cosmopolite, in tema di globalizzazione, competitività, privatizzazioni, riforma del welfare, flessibilità del lavoro, anti-egualitarismo. Tutti temi su cui si sono di fatto interrotti alcuni degli antichi, o possibili, legami fra sinistra e popolo, fra sinistra e nazione, in favore di un politicismo apparso a molti come distante, tecnocratico e autoreferenziale (AA.VV., 2003). Basti pensare all’enfasi che dopo il 1989 la sinistra tutta ha tributato ai temi dell’Europa, con un congedo dalla sovranità dello Stato – tardivo per alcuni, intempestivo se non addirittura maldestro per altri – foriero, nella percezione di tanti elettori europei, di dure ripercussioni in materia di riduzione del welfare nazionale.
La confisca tecnoburocratica del potere produce apatia civica e rivolta anti-elitarista e anti-intellettuale (Taguieff, 2002) contro i partiti storici, le coabitazioni, contro quella che – più o meno qualunquisticamente – viene considerata una connivenza interessata per la spartizione del potere. Non sfuggono, a questa critica corrosiva, i grandi partiti europei di ispirazione socialdemocratica, che in questi anni – con poche eccezioni – hanno visto ridursi il loro tradizionale bacino di insediamento popolare. E che dove sono stati più a lungo vincenti, come nel caso del New Labour blairiano, ciò è accaduto al prezzo di un profondo snaturamento della propria ispirazione e composizione sociale.
«In questa situazione – scrivono Magatti e De Benedictis – non sorprende che la fedeltà a un certo partito politico sia un elemento non particolarmente influente al momento del voto. L’espressione della propria preferenza partitica avviene entro un quadro di tendenziale indeterminatezza, a partire dal quale l’individuo opera delle scelte senza avere a disposizione criteri sufficientemente stabili e chiari» (2006, p. 182). La conseguenza di ciò è che al voto di appartenenza subentra quello di opinione, come testimonia l’incidenza crescente del tasso di volatilità del voto (Lane, Ersson, 1999, citato in della Porta, 2001).
L’egemonia del discorso liberista ha indubbiamente inciso sul grado di frustrazione dell’elettorato operaio, il quale avrebbe perso fiducia nella possibilità del cambiamento e dell’eventuale efficacia delle politiche redistributive a suo vantaggio (Weakliem, Heath, 1999). Da qui la tendenza all’astensionismo dei ceti popolari che ricordavamo poc’anzi.
Ma di questo disagio è un chiaro sintomo anche il disorientamento identitario dell’elettorato di sinistra, rilevato in Italia dalle indagini dell’Istituto Cattaneo, secondo cui l’elettore italiano di sinistra farebbe molta più difficoltà di quello di centrodestra a percepirsi e definirsi politicamente. «Pacifista» (84 per cento) e «moderato» (68,9) sono infatti gli attributi più ricorrenti; categorie di tipo pre-politico, a fronte delle quali solo indietro nell’elenco c’è ancora chi preferisce definirsi secondo il linguaggio politico ereditato dal novecento: «socialisti» (35 per cento), «comunisti» (32) «socialdemocratici» (29), ma anche, e soprattutto, «antifascisti» (79,2 per cento) (Itanes, 2006; p. 50). Nessuno, sia detto per inciso, si è definito «democratico».
A ulteriore riprova della tendenza al declino del voto di classe, a favore di forme più individualizzate e sociologicamente meno vincolate dai tradizionali legami ascrittivi, militerebbe il dato sull’iscrizione e sull’attaccamento ai partiti, in netto calo in molti paesi. Assumendo il rapporto fra membri ed elettori, studiosi come Bartolini e Mair (1997), Dalton e Wattemberg (2000) e della Porta (2001) hanno rivelato come – con poche eccezioni (Belgio, Germania) – vi sia stato in Europa un rapido declino della percentuale di elettori che risulta iscritto a un partito. In Italia, ad esempio, si passa da un rapporto del 12,7 per cento dei primi anni sessanta al 4,05 della fine degli anni novanta. Nel 1976 il totale degli iscritti ai maggiori partiti italiani era pari a 4.638.716, su un totale di elettori pari a poco più di 37 milioni, nel 2006 si passa ad appena 2 milioni di iscritti, su un numero di elettori che è nel frattempo cresciuto fino a poco meno di 49 milioni. Il Pci/Ds, ad esempio, passa dal milione e 814 mila iscritti del 1976 al milione 410 mila del 1989, ai circa 600 mila della fine degli anni novanta, solo in parte compensati dagli iscritti mediamente riportati dal Prc e dal Pdci (della Porta, 2001, p. 64). Una caduta di iscrizioni che, come rileva Francesco Raniolo, «costituisce un rilevante indizio delle trasformazioni che hanno allontanato, forse irrimediabilmente, i partiti europei dall’ideal tipo del partito di massa» (2002, p. 112).
Rapportata al sistema di potere in cui è compresa, la classe operaia si è a lungo trovata preclusa la possibilità di aggirare o forzare i robusti filtri selettivi posti al fine istituzionale di garantire i fondamenti proprietari e contrattuali del capitalismo dall’insorgenza di reali alternative a esso. Nikos Poulantzas, sociologo e allievo di Althusser, aveva sostenuto – in uno celebre studio degli anni settanta sulle classi sociali e il sistema politico contemporaneo – come le regole elettorali delle democrazie rappresentative degli Stati capitalisti – all’interno delle quali le persone votano come singoli individui e non come gruppi sociali, entro determinate unità territoriali – produca l’effetto di trasformare i componenti di una classe in individui atomizzati e depoliticizzati, cittadini giuridici, privati di effettivo potere collettivo.
Nel caso italiano, la preclusione nei riguardi della possibilità di conquistare elettoralmente la guida del paese da parte del Pci – ampiamente documentata e dibattuta dalla nostra politologia, con l’utilizzo di fortunate espressioni (conventio ad excludendum; fattore «K»; bipartitismo imperfetto) – ha certamente condizionato le scelte di voto della classe operaia italiana. Al contempo, l’esistenza del più grande partito comunista dell’occidente, maggiore forza della sinistra italiana, ha contribuito a lacerare appassionatamente gli orientamenti politici in seno al vasto bacino sociale di riferimento: il lavoro dipendente industriale. Il mito del socialismo e dello Stato sovietico, nel comunismo togliattiano, svolgerà «una funzione iper-identitaria di integrazione di massa, ma anche un’ipoteca costante sulla legittimità democratica di questo movimento» (Paggi, D’Angelillo, 1986, p. 102). All’impegno e alla militanza di tanti, ha finito col corrispondere l’opposizione e/o l’indifferenza di tutti gli altri, costretti a considerare l’impegnativo complesso di implicazioni scaturenti da un loro voto per una forza di sinistra, ritenuta – a torto o a ragione – poco affidabile per la stabilità economica e politica del paese, per via della sua ideologia e delle sue scelte internazionali.
Ci sarebbe poi da riflettere sul perché la classe operaia, che pure rappresenta ancora una quota significativa della composizione socio-statistica dei paesi più industrializzati, sia oggi quasi totalmente esclusa dall’accesso di propri rappresentanti diretti alle sedi elettive del potere legislativo. A eccezione della solita Svezia e della Gran Bretagna, un po’ dovunque in Europa non si arriva neppure all’1 per cento circa dei parlamentari. Da una nostra ricognizione fra i siti web di alcuni parlamenti europei, risultano registrati come «operai» (o affini) 3 senatori italiani (più 7 sindacalisti) su 315 (manca un dato analogo sul sito della Camera); 3 deputati e 2 senatori fra i circa 900 parlamentari francesi; 11 dei 614 membri del Bundestag tedesco (nessuna al Bundesrat), 3 parlamentari danesi (su 179); nessun blue collar in quello belga. Una sotto-rappresentazione, eclatante e di chiara matrice classista, le cui proporzioni travalicano ormai ampiamente il pur prevedibile argomento elitario e meritocratico che regge e ispira la selezione del ceto politico dominante nei sistemi di democrazia rappresentativa.
Anche l’elite politica di sinistra si trasforma, e dall’intellettuale organico, pensatore generalista ed «educatore delle masse», custode professionale dell’impegno e del patrimonio teorico del partito, si passa alla leadership tecnocratica dei professori, «espressione di embrionali comunità epistemiche connotate dalla condivisione di specifiche competenze, più che dalla condivisione di generiche appartenenze» (Fabbrini, 2000, p. 107-109).
Vi è poi un filone molto influente, che da Adorno in poi ha esaminato il potere manipolatorio che, attraverso l’industria culturale e i mass media – che di tale industria sono il perno principale –, il sistema dominante è in grado di esercitare sulla formazione dell’opinione pubblica, addomesticandola ai suoi valori individualistici e consumistici, con effetti determinati sulla stabilizzazione del consenso sociale e politico. Un approccio che, seppure riveduto e corretto, trova echi evidenti nella denuncia sempre più ricorrente – e non certo priva di fondamento – della telecrazia e del populismo mediatico, di cui il berlusconismo è divenuto un caso di scuola a livello internazionale. Qui si apre il sipario sull’offerta politico-partitica della nuova destra europea.
La cifra interpretativa rimanda, con sfumature di accenti anche significative, alle nozioni di populismo, rielaborate da sociologi e scienziati della politica per comprendere alcuni dei fenomeni più spettacolari e inquietanti intervenuti sulla scena internazionale di questi anni[29]. A partire dalla metà degli anni ottanta, un po’ dovunque emergono formazione populiste e di destra, in grado da raccogliere vasti consensi fra i ceti meno abbienti e fra gli operai, tradizionalmente vicini ai partiti della sinistra e del centro cattolico e popolare (Limes, 2000). È il caso del Front National di Jean Marie Le Pen in Francia, del «populismo alpino» di Jorg Heider in Austria e di Christopher Blocher in Svizzera, del «populismo della prosperità» scandinavo del partito del popolo in Danimarca e del partito del progresso in Norvegia, del Vlaams Block fiammingo in Belgio e del partito di Pym Fortyn (il Leefbaar Nederland) in Olanda, delle varie formazioni scioviniste in Russia e in molti paesi slavi e balcanici. In varie parti del mondo, dagli Stati Uniti all’Argentina, alla Thailandia, si assiste sempre più spesso al successo di leader populisti e miliardari. Solo Spagna, Svezia e Gran Bretagna paiono relativamente risparmiati dall’emergere di significativi partiti anti-sistema, populisti, xenofobi e antieuropei. In tutti i casi che abbiamo citato – cui si aggiunge ovviamente la Lega Nord e, per certi versi, anche Forza Italia – si è rilevato un significativo radicamento fra i ceti popolari: operai, disoccupati, casalinghe e pensionati. Sondaggi e studi condotti in Francia rivelano come il Front National di Le Pen abbia stabilmente raccolto, in questi venti anni, non meno di un 30 per cento dei propri consensi fra gli operai, e addirittura fino a poco meno del 40 fra i disoccupati. Similmente il Partito liberale austriaco (Fpo) di Jorg Heider, che negli anni novanta arriva ad attirare la metà dell’elettorato operaio (Taguieff, 2002).
Il populismo si connoterebbe oggi sia per il forte richiamo identitario ai temi comunitaristici dell’appartenenza etnico-nazionale, e in chiave xenofoba e anti-immigrazione, sia per il contenuto protestatario della sua agenda, anti-fiscale e anti-elitaria, con forti venature anti-europee e anti-mondialiste, comuni – a tratti – con il populismo di sinistra di alcuni movimenti anti-global (Taguieff, 2002). Una versione aggiornata di quella frattura centro-periferia, rilevata da Rokkan e Lipset (1967) alle origini degli Stati moderni, e ora non a caso riattualizzata dalla creazione di un’unione economica e politica a livello europeo. Una miscela in grado di determinare la mobilitazione e la cooptazione dei ceti popolari, grazie anche a una miscela fatale di iperdemocraticismo, plebiscitario e di facciata, e a una iperpersonalizzazione della politica, favorita oggi da ciò che è stato variamente definito come «telecrazia», «telepopulismo», «videopolitica» (Sartori, 1999). Una democrazia catodica, in grado di svilire i tradizionali canali della mediazione rappresentativa, e in cui «i media si sostituiscono ai partiti sia come meccanismi di selezione della classe politica sia come strumenti di mobilitazione dell’opinione o di definizione del programma politico» (Mény, Surel, 2001, p. 111). Il potere dei mezzi di comunicazione di massa nella formazione dell’opinione pubblica e degli orientamenti di voto è oggi divenuto tutt’altro che trascurabile, non limitandosi a rafforzare le opinioni già costituite, ma rivelando una forte capacità di trasformare il sistema delle preferenze, fino al punto di formarne di nuove. Nell’era della globalizzazione le forme canoniche della partecipazione politica regrediscono ovunque verso una post-democrazia (Crouch, 2004), amministrata da lobbies economiche in grado di assicurarsi a fini politici il controllo strategico dei media e dunque di un opinione pubblica sempre più singolarizzata e passiva. «Nella democrazia mediatica la politica, alla pari del calcio, è diventata un’attività da poltrona: assistere alla gara seduti comodamente in soggiorno ha sostituito la necessità di giocare sul campo. La partecipazione, nella democrazia mediatica, è essenzialmente un surrogato» (Franklin, citato in Mazzoleni, 1998, p. 312).

6. Classe sociale e soggettività politica
Oggi il nesso fra l'essere di classe (classe in sé) e l'averne coscienza politica (classe per sé) si rompe come causalità lineare, imponendo invece modalità più trasversali e reticolari di concettualizzazione. L'essere sociale degli individui continua a influenzarne la coscienza, ma lungo un percorso che è stato fortemente complicato da processi di individualizzazione e socializzazione assai più articolati che in passato. Da questo punto di vista, come ha rilevato correttamente Rosemary Crompton, «né l’analisi delle classi marxista né quella non marxista sono riuscite a offrire un resoconto teoricamente plausibile del passaggio analitico dalla struttura alla coscienza/azione di classe» (p. 106). Un approccio meramente economico al tema delle classi – sia che esso avvenga sul terreno delle gerarchie occupazionali sia che si ponga su quello dei processi di valorizzazione capitalistica – ne indaga la formazione e la struttura a prescindere dalla loro concreta costruzione identitaria e socio-politica. Ma su questo piano di indagine rischiamo di ricavare davvero poco rispetto alla sfera dei comportamenti collettivi, inclusi quelli elettorali. Dall’oggettività della condizione materiale, come si sarebbe detto un tempo, non si desume che pallidamente la soggettività degli attori sociali. Se diciamo infatti, correttamente, che il capitale è oggi in grado di sussumere e «mettere al lavoro», nel suo processo di valorizzazione, ogni prassi sociale, nonché spazi inediti del territorio e della mente, sempre più vasti e originali (Revelli, 1995; Bologna, Fumagalli, 1997; Hardt, Negri, 2002), diciamo allora che – dal punto di vista della classe in sé – quasi tutto oggi è divenuto neo-proletariato. Ma nella notte post-fordista in cui tutti i gatti sono grigi, limitarsi al paradigma della valorizzazione rischia di non dirci davvero nulla sui problemi della composizione della classe e della coscienza che di essa hanno, in modo sempre più differenziato, individui e gruppi sociali (Leonardi, 2000).
Di contro, assumere l’approccio più strettamente politico di Marx alle classi, dicotomico e circoscritto ai soli luoghi in cui classe e coscienza politica sembravano poter preservare un nesso – la classe operaia dei grandi insediamenti manifatturieri[30] o, più estensivamente, il lavoro subordinato in senso lato – presume troppo (gli operai tendono per definizione a una coscienza di classe) e non ci dice invece: a) come si spiega l’attenuazione di ogni correlazione forte fra condizione sociale e comportamenti elettorali; b) come ovviare, politicamente, al fatto che tale classe diviene sempre più minoritaria nelle società avanzate; c) che ne è di quella parte maggioritaria della società che non si riconosce né nelle culture e nelle pratiche di ciò che resta della comunità operaia, né nelle lotte che essa conduce ancora, del tutto legittimamente, per tutelare pezzi di welfare che parlano di una storia ignota ed estranea a generazioni e soggetti che sono cresciuti in una fase storica del tutto diversa?
Da questo punto di vista, né l’ipotesi post-lavorista e alter-globalista della «moltitudine» e dei movimenti (Hardt, Negri, 2002) né, all’opposto, quella neo-laburista, fondata sul recupero «narrativo», prima ancora che programmatico, della centralità del lavoro (Cantaro, 2006), paiono – da sole – in grado di offrire uno sbocco politico e teorico al vuoto di soggettività lasciato dal ridimensionamento e dalla trasformazione della classe operaia. Occorrono infatti sintesi culturalmente più inclusive e condivise, nel primo caso, e socialmente più ampie e articolate, nel secondo.
Dopo i fallimenti della rivoluzione in Europa, negli anni venti, anche fra gli studiosi di ispirazione marxista si è dovuto spostare il baricentro delle analisi dai processi materiali di valorizzazione capitalistica ai fattori ideologici di matrice sovrastrutturale che ostacolavano o impedivano la diffusione e il consolidamento di una coscienza di classe rivoluzionaria fra le classi subalterne (Anderson, 1977). I contributi gramsciani sull’egemonia culturale, oggi molto in voga fra i numerosi cultori (non italiani) dei subaltern e post-colonial studies, quelli althusseriani sugli apparati ideologici di Stato o, su un altro versante ancora, le analisi francofortesi sulla manipolazione delle coscienze prodotta dalla società opulenta e dall'industria culturale sui comportamenti sociali, partivano tutti da un interrogativo sostanzialmente comune: cosa impedisce che individui oggettivamente sottoposti all'alienazione e allo sfruttamento capitalistico non sviluppino soggettivamente una coscienza e una prassi politica rivoluzionaria?
Quell'interrogativo ci appare ancora oggi del tutto attuale, in ragione dei caratteri di un mutamento economico-sociale che estende l'area della valorizzazione del capitale a spazi collettivi ed esistenziali inediti, determina un netto peggioramento dei rapporti di produzione all'insegna della precarizzazione nel mercato e nel rapporto di lavoro, perpetua e aggrava le disuguaglianze dentro e fuori i confini geografici in cui dispiega tutti i suoi effetti.
La classe non è dunque morta, ma è stata probabilmente sepolta viva (Gattig, 2002). Infatti, pur non esaurendo le dimensioni della disuguaglianza sociale, essa ci pare mantenga tuttora un primato relativo nella determinazione delle disparità nelle condizioni e nei percorsi di vita (Schizzerotto, 2002). Il problema risiede piuttosto nell’accezione prevalentemente economicistica e riduzionista che ne ha a lungo offerto una certa vulgata marxista. Tanto sul piano teorico quanto su quello politico occorre dunque capire e metabolizzare fino in fondo che ciò che abbiamo troppo a lungo definito e liquidato come ideologia o sovrastruttura culturale, si rivela oggi più che mai determinante nella costruzione di un immaginario sociale e simbolico dal quale – temiamo – sono state espunte istanze, aspettative e speranze collettive di un mondo radicalmente diverso da quello in cui ci ha abituato a vivere il capitalismo. Sul terreno dei rapporti di potere fra le classi la lotta delle idee, dei modelli culturali, assume – a nostro avviso – un’importanza per nulla inferiore a quella del conflitto economico e politico. Lo scarto fra politica e società, ampliato in questi anni sotto la spinta dei molteplici fattori che abbiamo tentato di descrivere, deve essere colmato e una nuova linea di comunicazione deve poter far crescere i processi sociali e la loro autonoma presa di coscienza da parte dei cittadini, resi più partecipi alla vita pubblica. Il compito per la politica, come si vede, si presenta ancora una volta immane e del tutto incerto sugli esiti.

[1] IRES nazionale[2] Ricordiamo come la teoria della scelta razionale sia stata ampiamente ed efficacemente confutata da altre importanti correnti della sociologia politica (Pizzorno, 1981).[3] Di norma, si fa risalire l’origine di tale assunzione al ben noto passo della Prefazione del 1859 di Marx a Per la critica dell’economia politica, in cui – fra l’altro – si dice che «non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma al contrario il loro essere socialmente che determina la loro coscienza»; Roma, Editori Riuniti, 1969; p. 5. A. Gorz ricorda che «la teoria marxiana non si fonda su uno studio empirico degli antagonismi di classe […] poiché nessuna esperienza empirica e nessuna esperienza militante possono condurre alla scoperta della missione storica del proletariato […]. Marx vi ha più volte insistito: non è l’osservazione empirica dei proletari che permette di conoscere la loro missione di classe» (1980, p. 25). Nella Ideologia tedesca, ad esempio, si legge: «Non si parte da ciò che gli uomini dicono, si immaginano, si rappresentano, né da ciò che si dice, si pensa, si immagina, si rappresenta che siano, per arrivare agli uomini vivi; ma si parte dagli uomini realmente operanti e sulla base del processo reale della loro vita si spiega anche lo sviluppo dei riflessi e degli echi ideologici di questo processo di vita. Anche le immagini nebulose che si formano nel cervello dell’uomo sono necessarie sublimazioni del processo materiale della loro vita»; Roma, Editori Riuniti, 1967; p. 44.[4] Di essi si teorizzerà sia il «costante accrescimento» (vedi Storia delle teorie economiche; Teorie sul plusvalore), sia «la decadenza inevitabile», insieme al ceto contadino (vedi Lavoro salariato e capitale). Nel Manifesto si ipotizza un'alleanza col proletariato, ma da posizioni sostanzialmente conservatrici e reazionarie, in difesa di vecchi privilegi pre-capitalistici, oppure in vista del loro imminente passaggio al proletariato (vedi Critica del programma di Gotha). Queste ambiguità di fondo peseranno non poco sui dilemmi dei partiti marxisti nei confronti del tema strategico delle alleanze politiche con settori non proletari della società.[5] Un ampio e approfondito dibattito ha animato la scena intellettuale inglese sul lungo ciclo thatcheriano e sul suo carattere presuntivamente egemonico anche fra gli strati operai. Un «populismo autoritario» e nazionalista (Hall, Jacques, 1989), in grado di esercitare un forte fascino anche sulla classe operaia, specie durante la guerra della Falklands, senza tuttavia giungere a rovesciarne in profondità gli orientamenti politico-culturali più tradizionali (Williams, 1983; Jessop et al. 1989). Solo grazie al peculiare sistema elettorale inglese, basato sul principio «first past the post» (il primo arrivato passa il turno, ndr.) e una controversa suddivisione dei collegi elettorali, il partito conservatore è riuscito ad accreditare l’idea di un’egemonia interclassista, smentita invece dal fatto che in nessuna delle tre competizioni elettorali vinte dalla Thatcher (1979, 1983 e 1987), i conservatori hanno mai superato quota 44,9 per cento (Heath et al. 2001), con percentuali molto più basse nelle province industriali e operaie del nord e del Galles, dove non ha caso i laburisti hanno continuato a mantenere il controllo della maggior parte delle municipalità.[6] Un successo che si spiega più col tracollo dei conservatori, e del numero di votanti, che con un reale incremento dei voti laburisti. Blair vince nel 1997 col 43,2 per cento dei voti, che è la percentuale vincente più bassa mai ottenuta dai laburisti dopo il 1945 (con la sola eccezione della vittoria di Wilson nel 1974), con 10,7 milioni di voti nel 2001 e 9,5 milioni nel 2005, vale a dire circa due milioni e mezzo di voti in meno rispetto al «vecchio» Labour di Neil Kinnock, sconfitto nel 1992 da John Major. La differenza la fanno: a) i votanti, che crollano per due volte sotto tutti i minimi storici: 71,8 per cento nel 1997, e addirittura il 59 per cento nel 2001, e il 61 nel 2005; b) lo smottamento del Partito conservatore, che dai 14 milioni del 1992 cala ai 9,6 milioni del 1997, poi ancora agli 8,3 milioni del 2001. [7] Contro i teorici dell’eredità classica della democrazia, repubblicana e partecipazionista, il pensiero politico più elitarista e tecnocratico si è spinto fino a teorizzare che «la convinzione che un alto livello di partecipazione sia sempre una buona cosa per la democrazia, non è valida», in quanto testimonia di un duro inasprimento delle divisioni e del conflitto politico, in grado di determinare ripercussioni molto negative sulla tenuta del sistema democratico. Secondo questa tesi «l’apatia politica può riflettere la buona salute di una democrazia»; Lipset (1960), p. 30-31.[8] Mannheimer R. (2001).[9] Come stato rilevato, il Pci è l’unico partito italiano che cresce ininterrottamente a ogni consultazione politica fino al 1976, con l’unica eccezione del 1948 (Flores, Gallerano, 1992; p. 216).[10] Nell’ordine di allora: Varese, Bergamo, Como, Torino, Brescia, Vicenza, Novara, Vercelli, Treviso, Pordenone. La percentuale di lavoratori dipendenti, in queste province, variava fra un minimo del 41,4 per cento di Pordenone e un massimo del 54,2 di Varese. [11] Vedi Galli (1975), Are (1980).[12] «Nella realtà solo i segmenti più attivi e combattivi del proletariato si identificarono con l’organizzazione comunista, mentre larghi strati operai e settori popolari rimasero estranei al processo di politicizzazione o risultarono egemonizzati, attraverso il collateralismo di associazioni sindacali e culturali, dal moderatismo democristiano» (Flores, Gallerano, 1992, p. 177).[13] Come hanno acutamente sottolineato Flores e Gallerano (1992, p. 174): «Il consenso e l’adesione operaia, per quanto importanti, non costituirono mai la verifica ultima e la legittimazione piena della linea seguita dal partito, come non lo furono l’estensione, la qualità e i risultati delle lotte sociali», nei riguardi delle quali «vi fu un atteggiamento a volte ambiguo e a volte contraddittorio, sempre coinvolto e interessato». Barbagli e Corbetta, in un importante saggio sul Pci negli anni settanta (1978), avevano dimostrato come l’eterogeneità sociale dell’elettorato comunista rappresentasse una costante dei flussi elettorali del Partito comunista nel corso di tutto il secondo dopoguerra. L'enfasi con cui ricorrono, nella pubblicistica decennale del Pci, obiettivi e parole d'ordine come «ricostruzione», «interesse nazionale», «collaborazione», «solidarietà nazionale», si spiega grazie a questo orientamento di fondo. Sull’esigenza di una organizzazione partitica di massa, aperta ad alleanze interclassiste coi ceti medi si veda Togliatti e il suo famoso scritto su Politica nazionale ed Emilia Rossa (1974).[14] Su questi aspetti si vedano le varie indagini sociologiche raccolte in Paci M. (a cura di) (1969), Immagine della società e coscienza di classe, Marsilio.[15] Vedi De Giorgi (1993, p. 377).[16] Il ricorso alle analogie col fascismo ricorre con una certa frequenza fra le tante monografie che, in Italia, sono state dedicate a questo inedito fenomeno socio-politico. Paul Ginsborg, ad esempio, ha rievocato a riguardo un articolo di Primo Levi del 1974, nel quale si poneva in guardia dal fatto che «ogni epoca ha il suo fascismo» e quello attuale assumerebbe le vesti della manipolazione dell’informazione e del consenso, dell’alterazione del rapporto fra i poteri dello Stato, della depoliticizzazione di massa, della politica dell’antipolitica.[17] Una mole imponente di pubblicazioni e monografie continua a fiorire intorno alle fortune nazionali di Berlusconi e del suo movimento politico; fra i tanti, ricordiamo i saggi di Santomassimo, Flores d’Arcais, Ginsborg, Jones, Bocca, Pasquino, Tuccari, di riviste come Democrazia e diritto o Micormega. [18] Si ricorderà del resto come proprio in Italia, già nell’immediato dopoguerra, fosse sorto a destra un partito populista ante litteram, come quello dell’Uomo Qualunque, capace di raccogliere quote non insignificanti di consenso popolare.[19] Con il linguaggio immaginifico che lo contraddistingue, Aldo Bonomi ha parlato di una moltitudine di individui spaesati e di «proletaroidi» stressati dall’(auto)sfruttamento, inclini a riconoscersi in un presidente e in una coalizione capace di offrire loro rassicuranti surrogati identitari, l’etno-regionalismo padano della Lega, e piccole utopie concrete, il ridurre le tasse (Bonomi, 2000).[20] Mi riferisco, ad esempio, a titoli come Dalla lotta di classe alla lotta senza classi del marxista Etienne Balibar (1987); Are social class dying? di Clark e Lipset (1991); The Death of Class di Pakulski e Waters (1996); The Breakdown of Class Politics, ancora di Clark e Lipset (2001). [21] Emblematico, a questo riguardo, il successo dei sindaci di grandi metropoli europee, come Londra, Berlino, Roma, Amsterdam e Parigi, dove la sinistra raccoglie consensi molto grandi fra i giovani e i ceti medi più istruiti e cosmopoliti. Un altro esempio è costituito dal movimento alter-globalista, la cui composizione non può certo considerarsi una mera emanazione generazionale della classe operaia, riflettendo piuttosto i caratteri socio culturali del nuovo lavoro atipico e precarizzato dal capitalismo globale.[22] Già in occasione delle elezioni del 2001, l’Istituto Cattaneo aveva rilevato come – fatto 100 il valore medio – il centrodestra aveva raccolto i maggiori consensi fra le casalinghe (145), coloro che non leggono mai il giornale (128), che hanno solo il diploma elementare (125), che non leggono libri (115) e che vedono la tv per più di tre ore al giorno (115). Di contro, ben sotto la media 100, si collocavano quanti hanno un diploma di scuola media superiore (75), laureati (70), che leggono libri (70) o i giornali tutti i giorni (84).[23] A tal riguardo si vedano i contributi di alcuni fra i maggiori studiosi della classe operaia inglese – Richard Hoggart, Edward P. Thompson, Raymond Williams, Staurt Hall; la cosiddetta Scuola di Birmingham – che a quest’ultima hanno riconosciuto il merito di aver resistito all’egemonia culturale della classe dominante, sia mediante un proprio stile di vita relativamente autonomo, sia attraverso la creazione di proprie istituzioni rappresentative, come nel caso dell’invenzione del sindacalismo moderno. A questa matrice teorica attingono oggi gli esponenti di quel fortunato filone di indagine socio-antropologica, noto ormai come Cultural Studies. [24] L'orgoglio di essere della working class, ostentato attraverso uno studiatissimo utilizzo del look o dell’accento, o nel machismo turbolento dell’hooliganismo calcistico e delle gang giovanili, rivela una relativa irriducibilità del proletariato britannico a quel modello borghese di società civilizzata, basato – con Norbert Elias – sui valori dell'autocontrollo, della mitezza, della tolleranza, delle buone maniere. Una rottura di quel potere disciplinare che, all'origine del capitalismo e della società industriale, si afferma come «attacco frontale contro la cultura popolare» e ristrutturazione dell'autorità fin dentro le sfere più private della vita umana (Bauman, 1987). [25] Su questi aspetti vedi Runciman (1966-1972).[26] Del resto, la stessa storiografia più vicina al Pci ha indotto in Italia a identificare classe e partito, postulando di fatto un primato epistemologico, oltre che politico, di quest’ultimo, e una sostanziale svalutazione del «movimento operaio» come categoria interpretativa. Per una posizione diversa, vedi Merli (1976); Gallerano (1978).[27] Revelli (2006).[28] «Ai dominati – ha scritto Bordieu – non resta altro che l'alternativa tra la fedeltà a se stessi e al proprio gruppo (sempre esposta a rovesciarsi in vergogna di sé) e lo sforzo individuale per assimilarsi all'ideale dominante, che rappresenta l'esatto contrario della ambizione stessa di una ripresa in mano collettiva della propria identità sociale (..)» (Bordieu, 1977, p. 389).[29] Basti pensare a Populismo e democrazia di Mény e Surel (2001), Il populismo di Taggart (2002), L’illusione populista di Taguieff (2003) e poi ancora, con particolare riguardo alla vicenda italiana, Il populismo italiano di Tarchi (2004).[30] Questa era, ad esempio, l'interpretazione restrittiva che del proletariato dava Poulantzas (1971) in Potere politico e classi sociali: lavoratori manuali e produttivi.

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